Pedalando verso Sud: la costa toscana in bicicletta

Quest’anno la situazione difficile generata dal Covid-19 ci ha portato a scegliere di restare in Italia per le vacanze estive: l’occasione, una volta tanto, di fare una settimana di mare! Ma come scegliere una sola spiaggia, quando la nostra bella Toscana ne ha così tante? E allora abbiamo fatto un esperimento: siamo saliti in sella e abbiamo fatto la nostra prima, piccola esperienza di cicloturismo!

Tappa 1: da Livorno a Donoratico (62km)

Arrivati la sera prima a Livorno in treno, possiamo partire abbastanza presto al mattino per non pedalare troppo sotto al sole cocente di questo torrido agosto. Lasciandoci alle spalle la bella Terrazza Mascagni, imbocchiamo l’Aurelia percorrendone quello che ne costituisce senza dubbio il tratto più panoramico, subito a sud del capolugo costiero.

Eleonora inizia a odiarmi alla prima salita, ma quando poi vede il panorama figo sul mare, si ricrede e decide di continuare a pedalare. Questa prima tappa è anche la più lunga, ma la pineta fra Cecina e Bibbona ci permette di percorrere una decina di chilometri alla fresca ombra dei pini nelle ore più calde. Un quarto di cocomero a testa è il pranzo ideale per reidratarci prima di dirigerci verso i suggestivi vigneti di Bolgheri e terminare la pedalata nella piccola Donoratico.

Tappa 2: da Donoratico a Populonia (37km)

Partiti anche stamani la mattina presto, raggiungiamo San Vincenzo e costeggiamo il verdeggiante parco di Rimigliano. È la prima domenica d’agosto e si vede: essere in bici è l’unico modo per non passare la giornata in coda a cercare parcheggio. Certamente non invidiamo chi oggi trascorrerà più tempo in strada che in spiaggia.

Non appena imbocchiamo una strada bianca, ad Eleonora salta la catena: d’altra parte ribaltare la bici nello sterrato è più bello, ci si impolvera di più! Superata la prima prova da meccanici autodidatti, ci infiliamo nello stretto sentiero della Via degli Etruschi, uscendo alla spiaggia di Baratti pieni di graffi da rami e rovi, polverosi, ma con panorami stupendi stampati negli occhi.

Il mare del golfo più rinomato della costa toscana è affollato e i bagnanti, incuranti del Covid, trascorrono la domenica sdraiati uno sull’altro. Più che i teli da mare, oggi servirebbero i letti a castello sul bagnasciuga. Noi, assetati di cultura oltre che d’acqua, visitiamo sotto il sole cocente le necropoli etrusche prima di fare un tuffo nell’acqua del mare, che oggi sembra una sorgente termale a 35°.

Finiamo la giornata dormendo in una micro-roulotte, con il tramonto sui campi e il romanticismo selvaggio che aleggia tra i girasoli.

Tappa 3: da Populonia a Le Rocchette (50km)

La giornata inizia con una tranquilla pedalata tra i girasoli, fin quando il sottoscritto genio non decide di gonfiare la ruota con la nuovissima pompa made in Hong Kong, che la sgonfia quasi completamente in pochi secondi. La provvidenza fa apparire poco dopo un 85enne campione di ciclismo, che per sua disdetta ha forato, ma per nostra gioia ha una pompa funzionante da prestarmi mentre cambia la sua camera d’aria, salvandomi dall’ira funesta della fidanzata.

Ma il bello deve ancora arrivare: con le nostre bici da strada cariche di borse e i nostri miseri quadricipiti da pedalatori novelli, ci inerpichiamo nel sentiero costiero delle cale, dove un tuffo rigenerante nell’acqua fresca e l’assaggio dei ricci di mare offerti da un pescatore non sono sufficienti a conquistare le salite sterrate e sassose dove anche chi è in mountain bike scende e spinge.

Per fortuna torna l’asfalto e… ah no! Per evitare di morire asfaltati nella galleria della strada provinciale, passiamo da sopra al colle in una strada privata dove, affiancato dal terrore dell’Eleonora per i serpenti (che poi erano tutte lucertole), riesco non solo a far saltare la catena, ma anche a spezzare il copricatena. Una riparazione con lo scotch che “McGiver spostati” e si vola a destinazione per uno spritz sulla spiaggia!

Tappa 4: da Le Rocchette ad Alberese (55km…+7)

Quella di oggi è una tappa lunga, ma dove l’ombra della pineta in cui corrono i primi chilometri di ciclabile ci salva dalla canicola. Grazie all’intuito femminile di Eleonora non mancano una tappa al mercato di Marina di Grosseto per arricchire il nostro kit da campeggio con degli imbarazzanti piatti rosa shocking ed una a Principina Mare per reperire un pranzo a base di stracchino sciolto e focaccina secca, sdraiati sotto un pino con gli aghi piantati nelle cosce.

Il nuovissimo ponte sull’Ombrone ci permette di arrivare al parco naturale della Maremma, dove veniamo redarguiti da un ranger perché non abbiamo visto la ciclabile e pedaliamo sulla strada principale. Rimessi in riga, arriviamo alla spiaggia e, dopo un breve tuffo nel mare mosso, sveniamo sulla duna di sabbia.

Ripartiamo pedalando contro vento fino a raggiungere esausti Alberese e l’agriturismo in cui passeremo la notte. Sprovvisti di cibo per la cena ed incuranti dei 55km percorsi, ci rimettiamo in sella facendone altri 3,5 (e altrettanti al ritorno) per godere di cinghiale in umido e grigliata mista maremmana. Ne valeva la pena!

Tappa 5: da Alberese ad Albinia (45,5km)

Quella di oggi doveva essere una tappa breve e tranquilla: una trentina di chilometri agili per poi stravaccarsi sul mare tutto il giorno. Insomma, la giornata relax della vacanza: il sogno di Eleonora dopo le giornate precedenti in cui l’avevo fatta sgobbare, e invece…

Poco dopo la partenza troviamo un cancello a sbarrare l’unica via alternativa all’Aurelia 4 corsie. Una strada privata che la proprietaria da 2 anni tenta di regalare alle istituzioni perché ci facciano una ciclabile, senza successo. Lo stesso intoppo lo trova un grossetano: ne conosco due, vuoi che fra tutti i maremmani non sia uno di quei due, conosciuto anni fa a Firenze? Insieme passiamo una mattinata di peripezie. Tentiamo inutilmente di corrompere gli operai della ferrovia per farci dare un passaggio oltre quel chilometro e mezzo di terrore autostradale, per poi optare per la soluzione “vigna”. Entriamo abusivamente in 4 vigneti, scavalcando recinzioni e inerpicandoci fra rovi e rami pungenti: il lato positivo è che non troviamo vipere, quello negativo è che torniamo al punto di partenza. Sopravviviamo alla 4 corsie recitando tutto il rosario in cinque minuti e dopo aver trovato una navicella aliena parcheggiata in un campo, brindiamo con una birra fresca prima di separarci dal compagno d’avventura!

Presa la stanza ad Albinia, abbiamo tutto il pomeriggio davanti e intendiamo godercelo in spiaggia, ma ovviamente non appena usciamo veniamo colpiti dallo scroscio d’acqua dell’unico nuvolone passeggero presente su tutta l’Europa meridionale. Alla fine però conquistiamo l’agognata striscia di sabbia, oltre ad una pizza incredibilmente buona per cena!

Tappa 6: da Albinia a Capalbio (42km)

Costeggiando la laguna di Orbetello raggiungiamo il parco naturale della Feniglia, dove in perfetto stile Robinson Crusoe costruiamo un riparo di fortuna sulla spiaggia semi deserta: alla faccia della gente pigiata sotto gli ombrelloni degli stabilimenti!

Anche in quest’ultima giornata di pedalata non manca il momento “Ti lascio e prendo il primo treno” di Eleonora, quando la faccio salire fino al cucuzzolo più alto di Ansedonia. Poi però vede l’area archeologica e l’indole della maestra prende il sopravvento, iniziando la fase di perdono nei miei confronti per la salita, che si completa con il panorama della costa vista dall’alto, che si estende per molti chilometri.

Il perdono dura pochi minuti, perché faccio l’errore di indicare quanto manca al nostro campeggio, posto esattamente al confine con il Lazio. Le minacce di prendere il primo treno verso casa si intensificano quando ci imbattiamo in un sentiero sabbioso dove le bici si impantanano e devono essere spinte faticosamente. Ma quando scopre che dormiremo in una palafitta con vista mare mi perdona per l’ennesima volta.

Il trattore che ripulisce la spiaggia fa scappare tutti tranne noi che, imperterriti, resistiamo per cucinare tre etti di pasta col fornellino, accompagnata da due Moretti da 66cl, e restare a guardare il tramonto e le stelle avvolti nell’asciugamano. Oh, almeno a fine vacanza fateci fare un po’ i romantici!

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Transiberiana parte 2: da Mosca a Vladivostok

Dopo la prima parte nelle due principali città russe, Mosca e San Pietroburgo, inizia la nostra vera avventura nel paese più vasto del mondo. L’obiettivo è quello di raggiungere Vladivostok, sul Mar del Giappone, per completare il nostro “Russia coast-to-coast” in treno sulla Ferrovia Transiberiana.

Lungo il tragitto visitiamo città e facciamo sosta in minuscole stazioni perse nel nulla, ammiriamo paesaggi naturali da mozzare il fiato e assaggiamo cibi improbabili. Ma soprattutto condividiamo tante ore con persone che diventano la nostra famiglia in questo paese così controverso, ricco di culture diverse e tradizioni insolite e contrastanti.

Il lento procedere del treno ci fornisce tutto il tempo necessario per aprire gli occhi oltre il finestrino e le orecchie verso i nostri compagni di viaggio, che a loro volta ci aprono il cuore dimostrando quanto sia calorosa l’accoglienza russa, a dispetto della fredda immagine a cui siamo abituati a pensare

 

Transiberiana parte 1: San Pietroburgo e Mosca

San Pietroburgo è una città europea a tutti gli effetti, dove il fascino delle grandi capitali del nord è reinterpretato nella chiave di lettura degli zar del passato. Mosca è un’esaltazione della grandezza della Russia in tutti i suoi aspetti: qui si mescolano le epoche, il futuro porta con sé impronte indelebili della storia della nazione.

Da queste due grandi città parte il nostro viaggio in treno alla scoperta del paese più vasto del mondo: una Russia coast-to-coast, dal Mar Baltico al Mar del Giappone!

A Malta in inverno – il video del viaggio

L’arcipelago di Malta ha molto da offrire in termini di storia e cultura, arte e paesaggi, mare e cucina. Ma perché andarci a soffrire d’estate, con il caldo soffocante e le folle di turisti, quando negli ultimi giorni d’inverno ci sono 20 gradi, si spende poco, si mangia tanto e si gira dappertutto liberamente?

Con il nostro video di viaggio, proviamo a portarvi in maniera divertente a scoprire uno degli stati più piccoli d’Europa!

Danimarca in Interrail – Parte 5: Copenaghen (e un salto in Svezia!)

22-25 AGOSTO 2017

L’ultimo treno del nostro Interrail ci porta a Copenaghen, dove concluderemo questo viaggio alla scoperta della Danimarca. Ci arriviamo di sera, giusto in tempo per cenare con Alessio e Marella, amici fiorentini che come noi viaggiano con l’Interrail e seguendo un percorso diverso sono giunti alla nostra stessa destinazione. Prima di cena però, andiamo a prendere la stanza affittata per questa notte. Il proprietario dell’appartamento ci ha preparato un’accoglienza con mix di noccioline e una bottiglia di vino rosso cileno freddo di frigo. Aperitivo, cena e passeggiata per il centro. Anche se siamo nella capitale, alle 22 i bar iniziano a tirar giù il bandone, per cui la nostra movida si interrompe presto.

Al mattino, partiamo carichi di energia alla scoperta di Copenaghen. Ci accorgiamo ben presto di quanto sia caotica rispetto a tutte le città viste finora. Sembra di essere in un mondo a parte rispetto al resto del paese. Accanto alla stazione, vediamo solo dall’esterno i Giardini di Tivoli: il secondo parco divertimenti più antico del mondo (anche il primo è danese), attivo dal 1843. Il costo per entrarvi (e non sono comprese le giostre) è troppo alto per le nostre tasche. Una grande via dello shopping attraversa il centro storico portandoci fino a Nihavn, il canale più famoso della Danimarca, quello che fa da copertina a tutte le guide turistiche. Effettivamente è un porticciolo unico nel suo genere, che vale sicuramente qualche scatto fotografico. Litighiamo anche con due bambini, che non vogliono scendere dall’ancora con cui vogliamo fotografarci, e nonostante le nostre minacce, riescono ad entrare nella foto.

Alle 12 in punto, davanti al palazzo della regina c’è il cambio della guardia. A quest’ora tutti i turisti sono qui, radunati a vedere le buffe guardie con la casacca azzurra e il cappello d’orso. Ci dirigiamo poi verso il palazzo di Rosenborg, dove sono custoditi i gioielli della corona. Lo stupendo giardino che circonda il castelletto è perfetto per gustare i nostri panini con aringhe affumicate e brie, sorseggiare la locale birra Royal e rilassarci un po’, prima di incamminarci verso l’orto botanico. Qui ci avventuriamo nell’immensa serra delle piane tropicali, in cima alla quale il caldo è insopportabile e manca il fiato. Tornando verso casa, scopriamo un mercato coperto molto chic, dove i cibi locali sono riproposti in versione turistica. Ovviamente non compriamo nulla.

Giusto il tempo di prendere gli zaini, comprare il biglietto online col cellulare e siamo a bordo di un autobus svedese che ci porterà a Malmö, in Svezia. Attraversare il tunnel e ponte sullo stretto di Oresund era uno dei miei sogni da tanti anni, che adesso si realizza. Viaggiare sotto le acque del Baltico, sbucare in un’isola artificiale e poi stare sospesi a 60 metri sopra il livello del mare su uno dei più grandi ponti del mondo, è una sensazione davvero particolare, specialmente quando, scendendo dal bus, ti trovi in un altro stato. Qui, il ragazzo che ci affitta la stanza su Airbnb ci ha fatto una caccia al tesoro, dandoci il codice per aprire un lucchetto legato ad una bici, che contiene la chiave di casa. Prima di cena, raggiungiamo la spiaggia, dalla quale possiamo ammirare uno spettacolare tramonto su Copenaghen, ben visibile oltre lo stretto. Siamo quasi al termine del nostro viaggio, e dopo aver visto tutta la Danimarca, quale modo migliore di salutarla che attraversare il mare per vedervi il sole tramontare sopra?

La giornata a Malmö la trascorriamo con Alessio e Marella, che ci raggiungono qui in mattinata. La città non ha niente di stupefacente. Ci sono tre piazze ed una chiesa a raccontare qualcosa della storia di questo pezzo di Svezia, e l’imponente Turning Torso: il palazzo residenziale più alto al mondo, opera del celebre architetto Calatrava. Per il resto, il tramonto di ieri sera è stata sicuramente la cosa per cui è valsa davvero la pena venire in Svezia. Torniamo a Copenaghen con un autobus Norvegese a due piani, comodo e tecnologico come una navicella spaziale. Salutiamo i nostri amici, che stanno proseguendo il loro viaggio verso il Belgio, e andiamo a prepararci una cenetta di pesce. Ora, col pesce la birra non ci sta molto bene, si sa. E il vino, si sa anche questo, nel nord Europa non è molto diffuso. Nel supermercato ci sono 8 tipi di vino. Due, in cartone, ci danno l’idea che in confronto il nostro Tavernello sia un Barolo d’annata. Quattro sono i vini più scadenti che si trovano in Italia, ma costano fra i 10 e i 15€ a bottiglia. Uno è Australiano, e dal colore potrebbe essere succo di canguro. Scegliamo l’ultima opzione: un rosè tedesco da 5€, che sa di rancido ma ci sbronza di brutto.

Il nostro ultimo giorno parte sulle due ruote. Prendiamo con il bikesharing cittadino una bici elettrica dotata di navigatore satellitare, con la quale rischiamo la morte alla terza pedalata. La lasciamo vicino ad un noleggio, dove ci procuriamo due bici normali per girare più agilmente in città. La prima tappa di questa mattina è Christiania, il quartiere hippie dove non vigono le leggi danesi e tutto sembra essere tollerato. Piante di marijuana crescono rigogliose nelle aiuole, mentre ogni tipo di fumo si vende alle bancarelle fra braccialetti etnici e cibo spazzatura. Un posto strano, in netto contrasto col resto della Danimarca, dove non abbiamo mai visto nessuno fumare neanche una sigaretta. Pedaliamo per la città vedendo il Kastellett, un parco fortificato a forma di stella, e raggiungiamo infine la Sirenetta, monumento imperdibile. La folla che si accalca attorno allo scoglio più fotografato della Danimarca, non si accorge forse che si tratta davvero di una statua brutta. Ma brutta brutta. Delusi, rimontiamo in sella per un’oretta, fino a raggiungere il parco Jaegerborg Dyrehave. Qua, superato un lunapark permanente, ci si inoltra in prati e bosco che ospitano circa 2000 daini e cervi. Riusciamo a scorgerne qualcuno e a fotografarli anche da vicino. La nostra ultima sera si conclude sul canale dove sorge un immenso capannone dello street food, simile a quello trovato ad Arhus. Qui, sedie a sdraio permettono di ammirare il tramonto, gustando piatti di ogni parte del mondo.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

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Danimarca in Interrail – Parte 4: Selandia

22 AGOSTO 2017

Se siete in Danimarca e vi svegliate in un container adibito a camera da letto, all’interno di una comunità di vegetariani buddisti, con il bagno a 5 minuti a piedi, evitate di fare colazione con caffè solubile polacco preparato in acqua fredda della borraccia. Non è affatto una buona idea, e adesso lo sappiamo.

Alle 8.18 del mattino, puntuale come un treno danese (perché dire “come un orologio svizzero”, quando i treni danesi non sgarrano la partenza di un secondo?”), il primo treno di oggi ci porta a Roskilde, quella che fu capitale del paese prima di Copenaghen. Siamo sull’isola di Fionia e per raggiungere la cittadina, che si trova sull’isola di Selandia, attraversiamo il ponte più lungo della Danimarca: lo Storebaelt. Oggi il sole risplende sul mare ed è un peccato che parte del tragitto il treno lo faccia in un tunnel sottomarino.

Roskilde è molto carina, con edifici storici ben conservati e quell’aria tranquilla di rilassamento che abbiamo trovato in quasi tutte le città visitate dall’inizio del viaggio. A colpirci maggiormente sono due cose. La prima è l’imponente cattedrale con le sue guglie gemelle che dominano lo skyline della città, dentro la quale sono sepolti i monarchi danesi. La seconda è l’ufficio informazioni turistiche. Ci entriamo alla ricerca di una mappa del centro storico, ma troviamo molto di più. Innanzitutto c’è una macchinetta che fa caffè gratuito, e visto ciò che abbiamo bevuto stamani, non potevamo desiderare di meglio. Poi, girandoci intorno, scopriamo che c’è un tavolo da lavoro circondato da scaffali pieni di cianfrusaglie, dove ognuno può crearsi da solo un ricordo del viaggio. C’è anche un mappamondo sul quale apporre adesivi gialli e rossi, rispettivamente sul paese da cui si proviene e su quello dove si vorrebbe vivere. Anche qui, la gentilezza danese viene confermata dall’impiegato dell’ufficio (che in realtà ha i tratti di un nativo americano pellerossa), il quale si offre di tenerci da parte i pesanti zaini durante le nostre ore di visita. Ma la sorpresa maggiore l’abbiamo quando, mentre discutiamo sul treno da prendere per Hillerod, la nostra tappa pomeridiana, veniamo interrotti da una coppia di Genova (tra l’altro, lui si chiama Andrea e lei di terzo nome Eleonora) che vanno nella stessa direzione e ci offrono un passaggio sul loro camper.

Prima di partire abbiamo il tempo di fare un giro sul fiordo, dove si sviluppa il museo a cielo aperto delle navi vichinghe. Dalla lavorazione del legno agli ultimi finimenti, le navi vengono costruite a mano sotto gli occhi di tutti, utilizzando le antiche tecniche del popolo nordico. Facciamo incetta di susine e more che traboccano dalle piante in un parco pubblico, compriamo due insalatone confezionate (perché usare sale e olio, quando puoi condire l’insalata con la maionese?) e siamo pronti a ripartire.

Il camper ci mette un’oretta per raggiungere Hillerod, dove visiteremo il castello di Frederiksborg. Fatti i biglietti, lasciamo gli zaini negli armadietti, ma veniamo bloccati all’entrata perché dobbiamo lasciare anche gli zainetti piccoli. Torniamo indietro, ma ci viene ancora impedito l’accesso, per la borraccia. Alla terza volta, ci bloccano per il bastone allungabile della GoPro. Il quarto tentativo, praticamente nudi, è quello giusto per entrare nel castello, anche se ribadiscono una decina di volte che la macchina fotografica deve stare davanti e non a tracolla.

Il castello merita davvero una visita, ma ciò che vale davvero è il giardino (all’italiana, ovviamente) che si estende oltre il lago, circondato da un parco maestoso. Al termine della visita ci stravacchiamo sul prato, godendoci il sole tiepido del pomeriggio, prima di dirigerci verso la nostra ultima destinazione: Copenaghen.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

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Danimarca in Interrail – Parte 3: Jutland del sud e Fionia

20-21 AGOSTO 2017

Lasciamo Arhus di mattina presto, quando ancora il sole non ha scaldato la fresca ed umida aria di mare. Stamani tre treni ci fanno attraversare l’intera penisola dello Jutland, dalla costa orientale sul Mar Baltico a quella occidentale sul Mare del Nord. La nostra destinazione è Ribe: la città più antica della Danimarca.

Durante il primo breve cambio nella cittadina di Middelfart, incontriamo il tipo strano di oggi: ormai ogni giorno ce n’è uno. Stiamo cercando un supermercato per comprarci il pranzo quando il biondo e ringobbito sconosciuto ci chiede se siamo lì per visitare la città. Dopo averci raccontato tutta la sua vita in quattro minuti, cerca di convincerci a visitare un museo di ceramiche. A quanto afferma, basta dire il suo incomprensibile ed impronunciabile nome all’ingresso per entrare gratuitamente. Il treno ci aspetta, quindi non possiamo testare se è vero.

Ribe ci conquista subito. Il piccolo borgo medievale è ben conservato e ci rendiamo subito conto che è valsa la pena venire fin qua. Il cielo oggi è più variabile del solito: tutto il giorno passiamo dal sole ai temporali, con il vento che ogni tanto si alza per dare una spolverata alla città. Il monumento più importante è sicuramente la cattedrale luterana. Costruita a cavallo fra il 1100 e il 1200, ha come caratteristica le due torri campanarie, diverse fra loro. Dopo il crollo di una della due torri, quest’ultima venne ricostruita con uno stile diverso: vi si può salire in cima e godere di una splendida vista sul paese e sulle campagne circostanti fino al mare, cosa che ovviamente facciamo subito.

Troviamo un piccolo cortile con un tavolo, al quale ci fermiamo per mangiare i nostri panini: oggi testiamo l’ambiguo affettato “polle-rolle”, spalmato di formaggio brie, in pane di segale ai 6 semi. Per fortuna la birra danese aiuta a buttar giù ogni cosa. Mentre gustiamo il nostro succulento pasto, una signora che ci ha visti dalla finestra di fronte viene a chiederci di noi e del nostro viaggio. Confermiamo anche oggi che i Danesi sono un popolo gentile ed accogliente, sempre attenti ai viaggiatori.

Nel tardo pomeriggio attraversiamo nuovamente tutta la penisola fino a Kolding, dove passiamo un’oretta senza vedere niente di particolare. Un altro treno ci porta sull’isola di Fionia, fino al suo capoluogo Odense. Per due notti dormiamo fuori città, ad Holmstrup, ospitati grazie al Couchsurfing. Convinti che ad ospitarci sia un gruppo di studenti universitari, veniamo accolti alla stazione dalla sorridente Jaya e dal suo fidanzato, che ci conducono dove vivono: una comunità di 45 persone, in 4 grandi case all’interno di uno sconfinato parco curato nei minimi dettagli. Fra gli alberi spuntano statuette di Buddha e di Madonne, di streghette e di conigli a pois. La nostra camera è in realtà un container di legno blu, con un letto e due sedie. Ci viene fornito un sacco a pelo e ci viene mostrata la comunità: c’è chi suona musica da strada usando bottiglie di vetro, tubi e bidoni; c’è chi si occupa delle api producendo il miele più premiato della Danimarca; tutti fanno yoga e meditazione, ma soprattutto chiunque ti incontri lì dentro ti abbraccia anche se sei uno sconosciuto. Il bagno è a 5 minuti a piedi dal nostro container, la doccia ancora più lontana: per farla dobbiamo bussare ad una delle case e sperare che qualcuno ci apra. Dato che sono già passate le 21 e qui cenano alle 18, mangiamo nella nostra camera, facendo ben attenzione a tenere nascoste le nostre aringhe, dato che sono tutti vegetariani.

La mattina i nostri gentili ospiti ci prestano due bici per raggiungere Odense. Sono le 10 in punto quando tutti, ma proprio tutti, lasciano le proprie mansioni ed iniziano ad abbracciarsi. Dopo aver assistito alla simpatica scena, iniziamo a pedalare verso la città natale di Hans Christian Andersen, uno dei più grandi scrittori di fiabe della storia. Un colpo di fortuna ci ha fatti capitare qui proprio nell’annuale festival di Andersen: vicino alla casa-museo dello scrittore, le fiabe sono rappresentate da attori bambini, mentre per la città, vagano i personaggi più famosi, come il brutto anatroccolo. Ci imbattiamo anche in uno spettacolo di acrobati argentini, che ovviamente scelgono me, insieme a un altro Italiano, per fare qualche figuraccia pubblica.

Alla faccia dei nostri ospiti vegetariani, per cena ci mangiamo un immenso kebab, prima di pedalare di nuovo per i 10 km che ci separano dal nostro container. La serata finisce fra le risate quando andiamo a farci la doccia. Mentre l’Ele si asciuga i capelli e io asciugo la doccia (esatto, qui dobbiamo pulire il muro della doccia con, in ordine, un tergicristallo e due diversi stracci), quando uno dopo l’altro entrano nel bagno come se nulla fosse 5 inquilini della casa. Si vengono a lavare i denti un ragazzo in mutande e una donna sulla cinquantina con una vestaglia semi-trasparente, che palesemente le mutande non le indossa. Si aggregano alla combriccola un uomo pelato che si prepara il pediluvio e una ragazza che si spazzola i capelli, mentre altri si affacciano semplicemente a salutare e noi fingiamo di non essere troppo imbarazzati dalla situazione paradossale. Beh, almeno in questo posto strano qualche risata ce la siamo fatta!

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

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Danimarca in Interrail – Parte 2: Jutland centrale

17-19 AGOSTO 2017

L’accoglienza a Silkeborg è unica. Siamo ospitati da Lene e Michael, che con le due figlie ci aprono le porte di casa, offrendoci un comodo divano letto per la notte. Il sorriso di entrambi è la prima cosa che ci colpisce, nell’accompagnare una straordinaria ospitalità. Insieme ci preparano una cena tipica danese, mentre la figlia maggiore si occupa del dolce. Polpette di carne accompagnate da patate e carote possono non sembrare niente di particolare per noi Italiani, ma rappresentano la tradizione di un popolo del nord, dove la cucina si adatta al poco che il clima permette. Lene ci racconta di come per la sua famiglia la raccolta delle patate sia un ritrovo annuale importante, un po’ come avviene da noi per le vendemmie o le raccolte delle olive. Michael, invece, racconta con entusiasmo la passione che hanno per l’Italia e il nostro cibo. Scopriamo che tengono una lista dei viaggi che vorrebbero fare, pieno di mete italiane.

Siamo capitati in questa cittadina proprio nei giorni del festival annuale: una regata di barche sul fiordo è accompagnata da bancarelle di ogni tipo e tendoni con musica dal vivo: la cover in danese di “Sarà perché ti amo”, suonata da un gruppo folk mentre le pinte di birra vengono vendute a 6 a 6 in cartoni portabicchieri, è qualcosa che ti rimane dentro. Ma a rendere ancor più speciale la serata, ci sono i fuochi artificiali: siamo nel bel mezzo di un contest fra produttori internazionali di fuochi d’artificio, che sfidano con 30mila euro a sera di budget. Ci tocca la serata della squadra tedesca: 20 minuti di fuochi sparati da una piattaforma galleggiante nel fiordo, che creano coreografie con la musica a tutto volume che avvolge la cittadina. Qui a colpirci è la cover in italiano, cantata da Il Volo, della colonna sonora di Titanic “My heart will go on”.

Il mattino successivo, la nostra famiglia adottiva ci presta due bici per raggiungere il centro del paese da casa loro, che si trova a qualche chilometro. La pista ciclabile attraversa un bosco in mezzo al quale troviamo una scuola elementare dove, senza alcuna recinzione, i bambini scorrazzano felici fra gli alberi, dopo aver raggiunto sulle due ruote l’istituto. Una mattinata a giro per Silkeborg, e siamo pronti a ripartire.

Tramite GoMore (versione scandinava di Blablacar), riusciamo a trovare un passaggio in auto per Århus, nostra prossima tappa. Sulla costa orientale dello Jutland, si tratta della seconda città della Danimarca. Qui abbiamo affittato un appartamento per due notti: ce lo mostra un ragazzo altissimo che tocca quasi il soffitto con la testa. La casa è piena di libri fantasy e giochi da tavolo d’ogni genere, e sul letto uno spadone a due mani (per fortuna di plastica) pende inquietante dal muro. Girelliamo un po’ per il centro: alcune vie ricordano ancora il passato, ma la maggior parte della città è molto moderna. La parte più carina è forse quella piena di ristorantini lungo il canale, dove le strade si incrociano a due livelli, come se ci fossero due città sovrapposte. Per cena, scopriamo un enorme capannone pieno di banchi che propongono ogni genere di street food internazionale. Per tenerci leggeri, optiamo per carne d’anatra servita su patatine fritte due volte nello stesso grasso d’anatra. Ovviamente, il tutto buttato giù con un paio di lattine di birra prese poco prima al supermercato.

La mattina inizia alla grande con le brioscine comprate al fornaio sotto casa, che ci danno la carica per andare al Moesgaard Museum. Arriviamo in bus a questo strano museo fuori città, ricoperto d’erba come fosse una collina. Qui con tecnologie d’ogni genere viene raccontata in maniera interattiva la storia degli uomini primitivi di queste terre, in particolare dell’età del bronzo, del ferro e vichinga. Il nostro personaggio strano quotidiano lo troviamo mentre pranziamo con i nostri panini nella sala apposita del museo. In un gruppo di persone spicca un bambino sui 10 anni vestito in giacca e cravatta, che mangia con aria altezzosa caramelle gommose servite dai servili adulti circostanti. Sarà stato un pupillo della famiglia reale?

Durante l’ultimo giro pomeridiano per la città, ci compriamo le aringhe al supermercato, per cucinarci qualcosa di tipico danese per cena. Adattandoci con l’olio d’oliva aromatizzato all’arancia che c’è in casa, riusciamo tutto sommato a preparare un pasto decente. Un temporale improvviso (anche questo tipico danese) ci permette di passare la serata in casa giocando a carte e bevendo una grappa locale scoperta in un vecchio armadio, mentre ascoltiamo dischi in vinile trovati nell’appartamento.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

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Danimarca in Interrail – Parte 1: Jutland del nord

15-17 AGOSTO 2017

La sera di Ferragosto l’aereo da Pisa ci porta a Billund, un luogo sperduto nel centro dello Jutland, la penisola che costituisce oltre metà del territorio danese. A Billund non c’è niente, tranne la fabbrica della Lego e il parco a tema Legoland. Sono già le 20.30 e quindi non c’è tempo per tornare bambini con le costruzioni più famose del mondo. Prendiamo il bus per Vejle, cittadina sulla costa dove abbiamo preso una stanza per la notte. Appena saliti, l’autista ci insulta in danese: riusciamo ad intuire varie imprecazioni contro i turisti, perché abbiamo solo banconote di grossa taglia.

La mattina si parte presto: il primo obiettivo del viaggio è raggiungere Grenen, la punta estrema della Danimarca. In quasi 5 ore arriviamo a Skagen. Nella cittadina portuale si respira l’aria di mare tipica delle vecchie storie, con i pescatori come protagonisti e i gabbiani come quotidiani compagni d’avventure. Sul molo, fra le rosse casette di legno e le grandi navi mercantili, gustiamo un caro ma gustoso fish&chips. Una volta rifocillati, ci incamminiamo verso Grenen.

Percorso uno dei circa 5 km che ci separano dalla punta, tentiamo l’autostop e due simpatiche signore ci accompagnano fino al parcheggio attiguo alla spiaggia. Già qui comprendiamo quanto sia turistico questo luogo: percorriamo gli ultimi 600m fra la folla. Nonostante il caos, però, mettere i piedi contemporaneamente nel Mar Baltico e nel Mare del Nord è una sensazione gelidamente soddisfacente. I due mari si scontrano davanti a noi, su questa sottile striscia di sabbia dove le foche vengono a prendere il sole e i pittori provano a catturare la luce sulle tele. Pare esista una vera e propria corrente pittorica legata alla luce di Skagen, che riflettendo sulla spiaggia bianca rende quasi etereo questo luogo.

Fatto un pisolino appoggiati a una duna di sabbia, riprendiamo il cammino e torniamo a Skagen a prendere il treno per Strandby. Qui dormiremo ospitati da una donna di 63 anni col Couchsurfing. Dalla stazione, dopo aver camminato 45 minuti ed esserci persi in un bosco (almeno abbiamo fatto scorta di more e lamponi!), raggiungiamo l’abitazione. La proprietaria non c’è: ci accoglie Juan, inquietante individuo sulla settantina che a quanto pare vive da 22 anni in una squallida roulotte nel giardino della casa. In salotto 3 secchi raccolgono l’acqua piovana che filtra dal soffitto, in cucina l’igiene è un optional, in bagno non esiste né la doccia né l’acqua calda. La camera preferisco non descriverla per non intimorire i lettori. Riusciamo a cenare, a conoscere la padrona di casa (arriva, ci saluta e riparte dopo 10 minuti lasciandoci col fidato Juan) e non si sa come anche a dormire.

Juan ci aspetta al mattino con un’abbondante colazione: pane di segale riscaldato su un tostapane che sembra più una stufetta da bagno, marmellata e dulce de leche argentino. E’ inquietante, ma gentile. Il treno di oggi ci porta ad Aalborg, cittadina famosa per i tumuli tombali vichinghi. Ovviamente, è l’unica cosa che non riusciamo a vedere. In compenso assaggiamo pagnotte tipiche e acquistiamo la prima birra danese, ci meravigliamo per una piscina ricavata in un pezzo di mare nel fiordo, riceviamo minacce da un tizio ubriaco che crede di essere stato ripreso dalla mia telecamera.

Lasciamo Aalborg nel tardo pomeriggio per dirigerci a Silkeborg, che sarà una delle tappe più inaspettatamente belle del nostro viaggio!

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

LEGGI LA SECONDA PARTE: Jutland centrale

LEGGI LA TERZA PARTE: Jutland del sud e Fionia

LEGGI LA QUARTA PARTE: Selandia

LEGGI LA QUINTA PARTE: Copenaghen (e un salto in Svezia!)

Clicca qui PER GUARDARE IL NOSTRO VIDEO DI VIAGGIO!

Danimarca in Interrail – il nostro video di viaggio

Come per ogni viaggio, da qualche anno a questa parte, pubblico un diario in cui racconto i posti visti, le persone conosciute, le esperienze vissute.
Quest’anno in Danimarca ho realizzato anche un piccolo video, che vi regalo in attesa del mio diario di viaggio!
Consapevole di non essere un videomaker (e specificando che non vuole essere un documentario, ma un racconto che con le immagini mostri qualcosa di ciò che descriverò nel blog), spero che lo apprezziate e vi auguro buona visione!

Vuoi scoprire ogni dettagli del nostro viaggio in Danimarca? Ecco i 5 post in cui lo raccontiamo:

LEGGI LA PRIMA PARTE: Jutland del nord

LEGGI LA SECONDA PARTE: Jutland centrale

LEGGI LA TERZA PARTE: Jutland del sud e Fionia

LEGGI LA QUARTA PARTE: Selandia

LEGGI LA QUINTA PARTE: Copenaghen (e un salto in Svezia!)

“Pane, amore e fantasia”: il fornaio che dona sorrisi, e non solo!

Pane amore e fantasia 1Pane amore e fantasia 2L’insegna dice “Pane, Amore e Fantasia”, e anche se si tratta di una panetteria, sono sicuramente le ultime due le caratteristiche che la rendono unica. Il proprietario Lulzim Vulashi, detto Lorenzo per gli amici fiorentini, è giunto in Italia dall’Albania quando aveva 15 anni, adesso considera Firenze la sua casa. Porta al Prato è il suo quartiere, via Ponte alle Mosse il luogo in cui è diventato famoso per il modo in cui svolge il suo lavoro. Il lavoro apparentemente ordinario di fornaio, ma fatto con un pizzico di originalità.

Entrando nel negozio, il sorriso suo o della cugina che serve al bancone accolgono i clienti come se non fossero tali, come se fossero amici. Fra le bottiglie di spumante si intravede il Diploma di Benemerenza – ricevuto in Palazzo Vecchio dall’Istituto Scudi di San Martino – e fra i salumi spicca un cartellone giallo che invita a lasciare il proprio numero di cellulare e la data di nascita, per ricevere una torta omaggio il giorno del compleanno. È l’ultima iniziativa sociale del giovane panettiere albanese, dopo il pane gratis alle mamme in attesa, il 50% di sconto per i pensionati nel mese di gennaio – dopo le feste, quando hanno speso molti soldi per la famiglia – o la merenda in regalo per il primo mese di scuola a tutti i bambini del quartiere.

Sono arrivato in Italia a 15 anni – racconta con semplicità – e sono stato accolto dalla famiglia Montanari, che mi ha preso in casa come un figlio. Già quando vivevo in Albania, Firenze mi aveva sempre attratto per la sua storia, la sua architettura. Amo il rinascimento e sognavo di fare l’architetto. A 38 anni ancora non rinuncia ai suoi sogni, sottolineando: Non si sa mai, magari riesco ad andare all’università e a diventarlo.

A portarlo dov’è ora sono stati tanti piccoli passi, da un lavoretto presso un fornaio all’apertura di alcuni esercizi in società, fino a questo panificio tutto suo, che ben presto si è allargato vendendo vari generi alimentari e piatti pronti di qualità. Sono sempre stato appassionato di cose buone da mangiare e da bere – continua – e ho un grande spirito di libertà. Quindi dopo aver lavorato in società con altri, ho scelto di mettermi in proprio. Non che non mi piacciano le regole, ma lavorare in proprio mi dà maggiore autonomia, anche nel fare del bene agli altri. Posso lavorare e allo stesso tempo aiutare chi ha bisogno.

Già prima di aprire il negozio, Lulzim faceva volontariato alla Caritas di via Baracca nel fine settimana. Poi ha cominciato a preparare pasti per i senzatetto e a portarli ogni venerdì sera alla stazione. Adesso che Santa Maria Novella è cambiata, i senzatetto sono tutti a Campo di Marte. Quindi per me è scomodo andarci, ma preparo le cose da mangiare e altri volontari della nostra parrocchia passano il venerdì sera a prendere la roba e la portano a chi dorme in stazione. Quella della parrocchia del Preziosissimo Sangue si è rivelata per Lulzim una comunità in cui inserirsi, ma che ha anche supportato la sua voglia di mettersi in gioco nell’aiutare il prossimo tramite atti quotidiani legati al suo lavoro.

Pane amore e fantasia 3

Ciò che si percepisce è che Lulzim, e la sua famiglia con lui, ha come priorità vedere la gente sorridere. Ci piace la festa, ci piace vedere le persone felici. Adesso, quando chiamiamo per regalare le torte di compleanno, molti si stupiscono, sono straniti, non capiscono come sia possibile che non debbano pagare niente. È divertente. Gli viene da ridere nel descrivere le reazioni delle persone che, immerse in una società in cui nessuno regala niente, faticano a comprendere il senso del dono, soprattutto da parte di un negoziante.

Alla domanda se ha voglia ogni tanto di tornare in Albania, risponde con serenità: Ormai Firenze è casa mia. Nel negozio, oltre a due fornai, alla signora Maria – che lo gestiva prima di me – ci lavorano mia cugina e anche i miei genitori, che sono venuti da Scutari e fanno su e giù durante l’anno. Ogni tanto però mi sfiora l’idea di aprire laggiù un secondo ‘Pane, Amore e Fantasia’, penso che anche lì apprezzerebbero. Viene normale pensare: ci sarà qualcuno che vede in tanta beneficenza una concorrenza sleale? Ma anche su questo argomento Lulzim sorride. Qualcuno ci ha telefonato, ma non ci abbiamo dato peso. Lo facciamo perché ci crediamo. Per noi è un simbolo. Mezzo kg di pane non manca ad una neomamma, ma riceverlo la fa felice.

Andrea Cuminatto

Una scappata in Rodano-Alpi. Parte 2: Lione e dintorni

04-05 GENNAIO 2017

viaggio-rodano-alpi-2Il nostro viaggio non si è fermato ad Annecy (Vedi parte 1). Lungo la strada facciamo una brevissima visita a Chambery, che però non ci dice niente. Ad eccezione di una fontana con gli elefanti, pare non ci sia nulla da vedere. Arriviamo così in serata a dormire a Roussillon, nei pressi di Lione. La mattina siamo carichi di entusiasmo. Come è successo finora, anche questa giornata inizia con la nebbia, ma non ci scoraggiamo. Dedichiamo un paio d’ore al centro di Vienne, piccola città di epoca romana nella quale risaltano il teatro (attualmente usato per eventi) e il Tempio di Augusto e Livia. Quest’ultimo è perfettamente conservato, ma si trova dal lato opposto della città e presi dal girovagare ci dimentichiamo completamente di andarci.

Lione 1Lione 5Lione 2Lione 3Lione 4Lione ci accoglie col sole che sbuca dalle nuvole e riflette sul Rodano e sulla Saona alla loro confluenza alle porte della città. La terza città della Francia non è certo la più famosa per le bellezze artistiche, ma vale quanto basta da trascorrerci una giornata. Dalla maestosa piazza Bellecour, si ha una stupenda vista della basilica di Fourviere, che giganteggia sulla città. All’entrata dell’ufficio turistico, un addetto ci chiede che lingue parliamo e ci manda allo sportello dove una tizia che dovrebbe parlare correntemente spagnolo sa a stento un po’ di inglese. Ci arrangiamo a gesti e cerchi a penna sulla mappa.

Il quartiere di St. Jean è il vero centro storico della città. Stretto fra la Saona e la collina di Fourviere, è pieno di viuzze caratteristiche e colorate. La cattedrale, ovviamente di St. Jean, è famosa per il grande orologio astronomico e il suo carillon che diverse volte al giorno muove figure di animali e le scene dell’Annunciazione. Per il resto, la chiesa è apparentemente uguale alla parigina Notre Dame (e a molte altre grandi chiese francesi), forse solo un po’ più luminosa e ricca di vetrate colorate. La cosa più curiosa del quartiere sono sicuramente i traboules, veri e propri passaggi segreti nascosti nelle strutture dei palazzi. Alcuni ci vengono indicati all’ufficio turistico: entrando in un portone comunissimo, ti trovi in un cunicolo che porta non solo alle scale per salire alle case soprastanti, ma anche a sbucare in un’altra via del quartiere.

Salire a Fourviere è possibile con la funicolare, ma preferiamo farlo a piedi, per goderci ogni angolo delle intrecciate scalinate che si arrampicano sulla collina. Non avevo ancora perso nulla, e ovviamente perdo il cappello nel santuario. Dopo aver girato due volte i tre piani della gigantesca struttura, fra chiesa, cripta e cappelle varie, trovo un addetto alle pulizie, che mi porta alla ricerca di una signora che, a quanto pare, lo ha trovato. Per trovare lei, però, ci mettiamo un’infinità, girando girando ogni angolo e finendo anche nella sala di controllo delle telecamere di sorveglianza, per individuare l’anziana assorta in preghiera. Sul tardo pomeriggio una leggera pioggerella ci spinge a visitare il Museo di belle arti. Abituati a ciò che abbiamo in Italia, l’unica positività della scelta è stata scaldarci per un po’. Vorremmo finire la serata in bellezza con una cena tipica: a quanto si legge a giro, Lione è la città in Francia in cui si mangia meglio. Se già di per sé la cucina francese non è la nostra preferita, capitare per sbaglio un’osteria turistica non è un colpo di fortuna. Difficilmente consiglieremmo a qualcuno ciò che abbiamo provato.

Palazzo ideale 1Palazzo ideale 2Per l’ultima mattinata del nostro viaggio scegliamo una meta del tutto inusuale: il Palazzo Ideale del postino Cheval. Nell’entroterra fra Lione e Grenoble, circondato dal nulla cosmico di campi piatti e vuoti, sorge un magnifico palazzo che ricorda i racconti delle Mille e una notte. No, non è vero. Nel nulla cosmico sorge una stramboide costruzione che un postino mezzo pazzo ha fatto nel proprio orto, anziché piantarci cavoli e pomodori come i suoi vicini di casa. A quanto pare, questo fantomatico postino di fine ‘800 un giorno trovò un sasso strano che gli ricordò un sogno che aveva fatto a proposito di un palazzo stupefacente. Così decise – come chiunque avrebbe fatto – di dedicare 33 anni della propria vita per costruirsi in giardino un qualcosa di indefinito e poco sensato che però ha ispirato vari artisti, fra i quali Picasso. Non potevamo trovare un’attrazione “artistica” più divertente, oltre al fatto che la scritta “Divieto di non toccare” risveglia lo spirito bambino di mettere mani e piedi ovunque per godere appieno della creatività dell’artista.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

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Una scappata in Rodano-Alpi. Parte 1: dal Lago di Ginevra al Lago di Annecy

02-03 GENNAIO 2017
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Il nuovo anno
inizia con un breve ma allegro viaggetto di 4 giorni in Francia, precisamente nella regione Rodano-Alpi. Quando dici ai tuoi amici “vado in Francia”, hanno tutti in testa due alternative: Parigi o Provenza. Il resto del Paese non esiste, una landa desolata che corre dalla Torre Eiffel alla lavanda mediterranea, dove solo i più audaci possono avventurarsi. Ma non è proprio così, anzi, i nostri cugini d’oltralpe hanno diverse cose meritevoli da offrire sparse per tutta la Francia.

Yvoire 1La nostra prima tappa è Yvoire. Semi-sconosciuto, è in realtà considerato uno dei borghi più belli della Francia. Si trova sulla costa francese del Lago di Ginevra ed è veramente una piccola perla. Partiamo da Torino, dove avevamo trascorso il capodanno, quindi ci vogliono solo 3 ore e mezza di auto.

Yvoire 6Yvoire 2Yvoire 4Fortunatamente portiamo fin vicino a Ginevra 3 persone con BlaBlaCar, il cui contributo ci permette di pagare l’inaspettata mazzata del traforo del Monte Bianco. La simpatica cifra di 44,20€ per passare in un buco non è stata una bella sorpresa.

La giornata è grigia, ma riusciamo comunque ad apprezzare questo paesino medievale che d’estate dev’essere una vera chicca. Le vie sono quasi deserte, il porticciolo sul lago immerso nella nebbia è quasi spettrale, ma quando un raggio di sole spunta ad illuminare la cima del castello, si accende anche la voglia di esplorare. Scopriamo degli scorci stupendi e facciamo anche amicizia con due abitanti “particolari” (vedi foto).

Yvoire 5Alla solitaria ragazza dell’ufficio turistico chiediamo suggerimenti per soste da fare lungo il nostro percorso. Ci indica sulla cartina La Roche Sur Foron. Vista l’esperienza dello scorso anno (vedi: Come sopravvivere in Austria in un viaggio all’insegna della sfiga) e considerato il nostro scarso livello di francese, la nostra prossima tappa diventa subito “La ruota forata”. In realtà non è niente di eccezionale: un castelletto e una chiesa, poco di più da vedere, ma almeno spezziamo il tragitto verso la nostra destinazione di questa sera: Annecy.

Annecy 1Annecy 2Annecy 5Annecy è sicuramente la tappa più bella del nostro viaggio. All’estremità nord del lago più pulito d’Europa, attraversata dal limpido fiume Thiou (il più corto della Francia, solo 3,5km), è una piccola Venezia alpina. Nonostante il freddo e la stanchezza per la giornata di viaggio, non ci facciamo mancare una passeggiata del centro in notturna, con le luci natalizie che illuminano il piccolo rivo e i suoi ponti caratteristici.

La coppia che ci ha affittato la stanza è deliziosa. Lui della Normandia francese, lei Cilena, hanno scelto Annecy per viverci perché se ne erano innamorati. E ora cercano di trasmettere questo amore ai viaggiatori di passaggio. Facciamo colazione con loro mentre ci riempiono di cartine e volantini sulle cose più belle da vedere nella zona. Purtroppo abbiamo i tempi ristretti, ma ci hanno già convinti a tornare d’estate. La cosa più caratteristica è il Palazzo dell’isola, questa particolare costruzione che riempie totalmente l’isoletta nel fiume, nel quartiere storico. Proprio nel mezzo della minuscola isola si trova una piazzetta, con uno squisito caffè che propone giochi da tavolo insieme alle bevande. Così non ci facciamo mancare un Vin Chaud (il nostro Brulé) di metà mattinata, accompagnato da una partita a qualche gioco strano scoperto qui.

Annecy 6Yvoire 7Esplorare la cittadina è ancor più bello essendoci il mercato. E mentre ci immergiamo nei colori delle case e negli odori dei prodotti tipici, approfittiamo per fare un po’ di spesa per i prossimi pasti. Fra un chilo di spinaci freschi e uno strano sformato al lardo, ci attacca bottone un signore davanti alla panetteria, mentre cerchiamo di capire dove mettere la nostra baguette (venduta ovviamente senza sacchetto) per non portarla sotto l’ascella mezza giornata. Spiegandoci in un misto fra Francese, Inglese e Italiano che il pane è buono (lo sapevamo anche noi, ma è sempre bello avere conferme), ci dice che è in parte Italiano e ha parenti a Siena. Poi saluta da lontano la moglie e ci indica parlando di noi come se fossimo vecchi amici ritrovati.

Annecy 3Annecy 4Come ultima cosa saliamo in auto a vedere la basilica della Visitazione. Fuori è imponente, dentro non ci entusiasma più di tanto. Ma dalla cima della collina su cui si trova, si ha una vista meritevole sul paese e sulle montagne che fanno da sfondo. Siamo entusiasti pronti a ripartire: stasera dormiremo nei pressi di Lione!

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

Le “nonne adottive” del Mugello

Casa Il Nido Granello di SaleOra devo andare, a casa ho la nonna che mi aspetta! A pronunciare questa frase è un piccolo Etiope e apparentemente è una cosa normale detta da un bambino. La splendida stranezza sta nel fatto che la nonna in questione sia un’italianissima signora del Mugello. Ormai da quasi 13 anni è nata a Borgo San Lorenzo l’associazione Il Granello di Sale che, fra i suoi progetti, ha attivato l’originale iniziativa “Donne e dintorni”. Dal 2011 Il Granello di Sale offre alloggio temporaneo e in co-housing alle donne che, in Mugello, si trovano in situazioni di grave difficoltà: vittime di violenza domestica, anziane sole, madri sole con problemi economici.

La nostra associazione – spiega Francesca Lippi, una delle fondatrici – è nata con tre ambiti: culturale, artistico e sociale. Abbiamo aperto ‘Il mio giornale’, periodico cartaceo divenuto ora magazine online, e abbiamo prodotto numerose canzoni, specialmente contro la violenza domestica sulle donne e l’infibulazione. Se già gli aspetti culturali e artistici dell’associazione avevano uno sfondo sociale, da 6 anni l’impegno è cresciuto, con l’apertura di Casa Cristina a Ronta, frazione di Borgo San Lorenzo. In questa casa – continua Francesca – vive una signora di 89 anni insieme ad una giovane donna etiope e al suo bambino. Ci sono volontari che vanno due volte alla settimana a dare una mano per fare la spesa, portare la signora dal medico o altre necessità.

L’esperienza, risultata positiva per entrambe le parti, ha portato nel 2015 all’apertura de Il Nido, una seconda casa in cui vivono attualmente una signora di 83 anni con un giovane Marocchina e i suoi tre bambini. Non facciamo prima accoglienza ai migranti – specifica Francesca – ma siamo nel secondo step: aiutiamo quelle donne che vogliono integrarsi a trovare un lavoro, mandare i figli a scuola e avere una famiglia. E il beneficio risulta duplice. Da un lato le donne straniere hanno qualcuno che le aiuti ad integrarsi nella società italiana e i bambini hanno una nonna, dall’altro le nonne non sono sole. La prima nonna arrivò molto depressa, adesso è cambiata: ha ricominciato ad uscire, va alla messa, vizia il suo nuovo nipotino. E la signora etiope che sta con lei ha trovato un lavoro e contribuisce al mantenimento della famiglia. Anche il bambino sta crescendo ben amalgamato nel contesto, tant’è che ha festeggiato il suo compleanno invitando a casa i compagni di scuola.

Il rapporto di affetto e fiducia che si crea con questa convivenza multietnica è un punto fondamentale. Francesca prosegue raccontando che nella seconda casa la nonna è cattolica e la donna marocchina è musulmana: è normale assistere a dialoghi in cui la nonna suggerisce ‘Se vuoi trovare lavoro devi toglierti il velo’. Si instaura una confidenza che porta sia aiuto ad integrarsi, sia un senso di protezione delle nonne nei confronti delle loro coinquiline.

Andrea Cuminatto

 

I bambini di Aleppo chiedono la pace. La testimonianza del vescovo Audo

audoHa negli occhi l’amarezza di chi ha visto tanta, troppa sofferenza ed è consapevole della difficoltà di metter fine alla guerra. Ma il sorriso è rassicurante, come di un padre che vuole infondere speranza ai suoi figli. Mons. Antoine Audo, vescovo di Aleppo, non solo si impegna quotidianamente – in particolar modo tramite la Caritas locale – ad aiutare e difendere i più deboli ed emarginati nella sua città, ma ormai da tempo è diventato una delle poche voci che raccontano il contesto della guerra in Siria in maniera imparziale. In interviste rilasciate negli ultimi mesi non si è limitato a descrivere la situazione della sua città, ma ha avuto il coraggio di accusare Stati Uniti e Israele di finanziare lo Stato Islamico, ha avuto la temerarietà di dire le cose come stanno senza prendere una parte se non quella delle vittime innocenti di questa guerra.

Approfittando dei giorni che ha trascorso a Firenze, ho rivolto alcune domande a mons. Audo. Sulla situazione politica dice: I Paesi occidentali bombardano, dicendo di combattere lo Stato Islamico, ma lo scopo reale è vendere armi. Giocano su una guerra di religione per giustificare i loro interventi, ma la motivazione della guerra è economica. Quando parla dello “Stato islamico”, non dice ISIS, ma DAESH. E’ un acronimo ritenuto meno offensivo per i musulmani, ma allo stesso tempo più dispregiativo nei confronti del gruppo terroristico (la pronuncia araba ricorda il verbo “calpestare, mettere sotto i piedi”). Credo che d’ora in poi lo userò anch’io.

Non siamo poi così lontani
Non siamo poi così lontani

Aleppo si trova a soli 40 km dal confine turco. Il fiorentino mons. Paolo Bizzeti è vescovo del Vicariato apostolico dell’Anatolia, la regione turca che confina con la Siria. Viene naturale chiedere se fra i due vescovi, le due diocesi di Paesi confinanti in conflitto, ci siano o potrebbero nascere dei rapporti che favoriscano il processo di pace. Siamo entrambi gesuiti – spiega Audo – ma non abbiamo relazioni. La ragione è molto semplice: la Turchia è il paese che prepara i gruppi armati e li manda verso Aleppo. Fra le popolazioni cristiane dei due Paesi non ci sono rapporti, anche per un divario culturale e storico. I Siriani vedono nella Turchia un grande nemico: non hanno dimenticato il genocidio di armeni e caldei siriani, non hanno dimenticato la dominazione dell’Impero Ottomano.

Ulteriore conferma della difficile convivenza fra i due popoli è sottolineato dai diversi tipi di emigrazione. I cristiani che dalla Siria sono andati in Turchia – prosegue il vescovo – lo hanno fatto esclusivamente per arrivare in Grecia e da qui al resto d’Europa. Molti erano giovani in cerca di opportunità, di lavoro. Si parla molto del milione e mezzo di profughi siriani in Turchia: sono quasi tutti musulmani, non ci sono cristiani siriani profughi in Turchia.

Audo descrive Aleppo come una città in cui regna ormai la distruzione. A far piangere maggiormente sono le morti dei bambini, uccisi come se fosse una cosa normale, di routine, a cui non si fa più caso. E la sua battaglia quotidiana è proprio per loro, perché quelli che ancora vivono possano avere un futuro diverso dalla guerra. A dargli una grande speranza sono i progetti come quello presentato i giorni scorsi da Agata Smeralda, l’associazione per l’adozione a distanza che anche in Siria opera per dare ai bambini un’opportunità. Quest’ultima, assieme alla diocesi di Firenze, ha proprio recentemente inviato ad Aleppo 61.000€ per cibo e medicinali.

In un mondo pieno di diffidenza, tanti Italiani si chiedono se questi progetti funzionano realmente.  – risponde – funzionano ed hanno un grande valore. Aiutano la gente a sopravvivere, a mangiare, a curarsi e ad andare a scuola. Ci sono tanti gruppi cristiani che da anni portano avanti progetti umanitari in Siria e lo Stato apprezza davvero l’operato di queste organizzazioni. In Europa si crede che qui ci sia un cattivo rapporto fra musulmani e cristiani. Non è così: i cristiani sono apprezzati molto dai musulmani, sia dalla gente comune che dalle istituzioni, perché negli anni hanno fatto tanto per chi aveva bisogno senza guardare alla confessione religiosa, aiutando tutti allo stesso modo.

L’operato di Caritas, Agata Smeralda e di tutte le altre associazioni e organizzazioni è certamente importante, ma non rischia di essere solo una toppa in un vestito che viene forato quotidianamente? Sì, l’aiuto alle persone che soffrono è importantissimo ma non risolve la guerra. Tutto dipende ovviamente dalle decisioni prese a livello internazionale. Ma la Chiesa Cattolica ha un vantaggio: ha mezzi di informazione e, tramite le persone che operano sul territorio, può dare notizie vere su ciò che accade, può denunciare cosa succede con oggettività perché non ha interessi politici ed economici.

E chi sta in Italia, cosa può fare? Sostenere progetti come quello di Agata Smeralda ma soprattutto informarsi e informare bene. Non lasciarsi convincere dalle notizie falsate che arrivano dai grandi mezzi d’informazione e che seguono le logiche della politica internazionale. E pregare.

Andrea Cuminatto

Alla scoperta della Val d’Orcia… attraverso la Via Francigena

Cartello Via FrancigenaVia FrancigenaColline della Val d OrciaIl sogno di percorrere la Via Francigena dalla Val d’Aosta a Roma non si è ancora realizzato, ma ad alimentarlo ancor di più ci ha pensato la mia fidanzata nel giorno del mio compleanno. Senza sapere fino all’ultimo la destinazione del nostro viaggetto di un giorno, mi sono ritrovato a San Quirico d’Orcia, una delle località più caratteristiche dell’entroterra toscano.

La Val d’Orcia si trova a metà strada fra il Chianti e la Maremma, e se del primo ricorda le dolci colline, della seconda riprende il sapore selvatico e incontaminato. Mi aspetto di essere lì per visitare San Quirico, invece no. Da qui passa la Francigena, e la vera sorpresa è percorrerne un tratto insieme. Così dal paese ci inoltriamo fra i campi, costeggiamo uliveti e fattorie, entriamo nel bosco. I colori di fine ottobre rendono magiche le sfumature delle colline, che sotto al cielo terso assumono ogni tonalità dal verde al marrone, passando per le più dolci gradazioni di ocra ed arancio.

Piazza di Bagno VignoniAcqua termale Bagno VignoniDopo 6-7 km di passeggiata arriviamo a Bagno Vignoni, che ci accoglie con la sua incantevole piazza d’acqua termale. Seguiamo il ruscello d’acqua tiepida, fin sotto la cascata che crea alle pendici del borgo e, ovviamente, ci togliamo le scarpe per infilarci i piedi come due bambini.

E’ ora di pranzo: ci vorrebbe troppo a tornare a piedi e le uniche due corse giornaliere dell’autobus sono ad orari impossibili. La soluzione è presto trovata: facciamo l’autostop e riceviamo un passaggio da una coppia di fotografi sud-coreani. Spostando i quintali di attrezzatura fotografica, ci fanno posto in auto e in quel quarto d’ora di strada scopriamo che non siamo gli unici ad amare i luoghi più sperduti della nostra Italia.

29 anniCappella di VitaletaA San Quirico le tagliatelle al tartufo e i crostoni col lardo si fanno accompagnare bene dal vino locale, anzi fin troppo bene. Per smaltirlo non basta esplorare ogni strada, ogni chiesa, ogni angolo degli Horti Leonini. Così per merenda entriamo in un minimarket per uscirne con un pacco di grissini e un barattolo di Nutella.

Prima di tornare verso Firenze, andiamo a scoprire la cappella di Vitaleta, uno dei simboli della Val d’Orcia e della Toscana intera. Fra i cipressi sulla verde collina, ci perdiamo lungo le strade sterrate per arrivarci, ma alla fine ne vale la pena. Un altro pizzico di mondo lo abbiamo scoperto, e la voglia di percorrere tutta la via Francigena per trovare altri luoghi come questo sparsi per l’Italia è sempre più grande.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

La mia missione in Romania

Dopo due anni, un piccolo ricordo della missione che ho vissuto in Romania.

Basilicata coast to coast… e oltre! (Tappa 5: Matera)

18-19 AGOSTO 2016

mappa-campomaggiore-materaAd accoglierci a Matera, nel sasso che abbiamo affittato, è una ragazza che sta facendo joga per terra con il gatto. Non è che abbiamo noleggiato una pietra, è che qui i Sassi sono le case, scavate nella roccia calcarenitica della Murgia. Il piccolo appartamento è una grotta accogliente: in un’unica stanza letto, soggiorno e cucinotto, mentre il bagno è scavato in un piccolo anfratto. Giusto il tempo di posare i bagagli ci avventuriamo per il centro.

Matera 1Matera 2La Civita, centro della città, fa da spartiacque fra il Sasso Caveoso ed il Sasso Barisano, i due quartieri resi negativamente famosi da Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli e ora fiore all’occhiello dell’intera Basilicata. Compriamo una focaccia tipica, e ovviamente anche qui becchiamo una lite familiare in diretta. Mentre un bambino ordina gli ultimi 3 arancini di riso, il fratellino si arrabbia perché il resto non gli piace, la madre gli fa una partaccia davanti a tutti e il padre si mette a urlare. Il tutto in 2 metri quadri con altre 18 persone (fra cui noi) e una fornaia imbarazzata che prova timidamente a proporre un panzerotto alla stressata famigliola. Gustiamo il sudato acquisto con i fagiolini cotti la sera prima, seduti su una roccia ad ammirare questo presepe a formato gigante che è Matera.

Matera 3Matera 4Qui il territorio ricco di cavità naturali ha favorito l’insediamento nelle grotte, che pian piano sono state ulteriormente scavate, chiuse, integrate con case esterne. Questo raro esempio di architettura in negativo (realizzata creando il vuoto nella roccia anziché costruendo), ha un fascino unico e particolare. Ma non è il motivo per il quale Matera è diventata patrimonio Unesco. Lo scopriamo in un bellissimo tour guidato alla scoperta della città, delle sue case-grotte, delle antiche chiese rupestri, delle tradizioni secolari che si sono sviluppate qui. Ciò che rende davvero unica Matera è infatti il sistema di raccolta dell’acqua piovana. In una zona secca ed impervia, senza fonti diverse dallo sporco torrente Gravina, condotti e cisterne collegate da casa a casa, da grotta a grotta, hanno permesso ad una vera civiltà di svilupparsi sulla brulla Murgia e di essere ora un esempio nel mondo per la tecnica.

CuccùFra le curiosità che ci racconta la guida Isabella, e che tocchiamo con mano in un laboratorio artigiano di cartapestai, ci sono 4 oggetti. Il cuccù, un fischietto di coccio a forma di gallo: non è un passatempo per bambini, ma un pegno d’amore che si regalava alla ragazza per chiederle la mano e le sue dimensioni e decorazioni simboleggiavano la propria ricchezza. La Pupa, statuetta di terracotta rappresentante la “Pacchiana”, cioè la donna vestita con colori variopinti che si vede, tra l’altro, sull’etichetta dell’Amaro Lucano: un tempo la Pupa era di caciocavallo e veniva appesa al collo dei bambini cosicché, ciucciandola, acquisissero il calcio necessario alla crescita. Il timbro per il pane: anticamente si era soliti portare la propria forma di pane a cuocere alle botteghe fornaie, ed ogni famiglia aveva il proprio timbro per marcare il pane; se non lo marchiavi, non potevi dimostrarne la proprietà e lo perdevi, restando tanti giorni senza cibo. Il carro della Bruna: dal 1600 è tradizione ogni 2 luglio portare in processione la statua della Madonna su un carro di cartapesta. Giunto nella piazza principale della città, il carro viene letteralmente assalito dalla folla, che lo distrugge per accaparrarsi un pezzo di cartapesta.

Menù MateraDurante la visita facciamo amicizia con Elisa, Valentina e Marta, tre ragazze simpaticissime di Lecco che, dalla loro vacanza in Campania, hanno fatto questa scappata nella città dei Sassi. Decidiamo così di cenare insieme e troviamo una locanda dove abbiamo la “fortuna” di non trovare posto all’aperto: una volta seduti, infatti, leggiamo che i proprietari non fanno pagare il coperto dentro perché non è suolo pubblico. La seconda buona notizia è che, si legge sul menù, l’acqua non si paga perché “è un bene, non una merce”. Fra un piatto di pasta al peperone crusco e quattro risate, ci scambiamo storie di viaggi, esperienze e progetti. Scopriamo che le nostre nuove amiche cantano nel Coro Elikya, un gruppo di musica africana composto da musicisti e coristi di numerose nazionalità. Ora abbiamo anche una ragione per andare a visitare quel ramo del lago di Como.

La serata procede alla ricerca delle Tette della monaca, dolcetti tipici che però non troviamo nei bar aperti. Così ci accontentiamo di un tortino cremoso che prendiamo in gelateria e gustiamo seduti sul marciapiede e di una zeppola consigliataci in un bar, che però si rivela troppo untuosa e pesante per essere digerita senza l’ennesimo Amaro Lucano di questa vacanza.

Matera 5Il secondo giorno in questa meraviglia di città inizia con un giro attorno al castello, seguito dall’esplorazione del Palombaro Lungo, la colossale cisterna sotterranea da 5 milioni di litri d’acqua che sostentava la città. Ancora Matera ci stupisce. Il pomeriggio, invece, è la Murgia antistante la città, sulla sponda opposta del torrente Gravina, a stupirci. Non è un caso se Mel Gibson ha girato su questa altura la crocifissione in The Passion: le rocce chiare, la poca erba a ciuffi, lo sfondo di una città che sembra un presepe danno a questo luogo l’aspetto ideale per rappresentare la Terra Santa.

Matera 6L’ultima cena del viaggio, purtroppo, è cattiva e pesante. Per smaltirla camminiamo fra le luci che illuminano le case e le grotte, tanti punti luminosi che sembrano lo specchio del cielo stellato. Anche stasera non può mancare l’amaro della buonanotte: quale luogo migliore di un bar all’aperto che ha banchi di scuola come tavoli e un’Ape Piaggio come divanetto?

E così andiamo a letto, felici per l’ennesima bella giornata, ma anche un po’ tristi perché questo viaggio alla scoperta della semi-sconosciuta Basilicata è ormai volto al termine.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

mappa-viaggio

LEGGI LA QUARTA TAPPA: I Paesi-fantasma e il Volo dell’angelo

 

 

Basilicata coast to coast… e oltre! (Tappa 4: I Paesi-fantasma e il Volo dell’angelo)

17-18 AGOSTO 2016

mappa-metaponto-campomaggiorePrima di partire dal campeggio di Metaponto, troviamo al nostro risveglio un dono da qualcuno che ha smontato la tenda prima di noi: un pacco con 3 rotoli di carta igienica. E’ sempre bello condividere lo spirito del buon campeggiatore in ogni dove.
Pisticci2La prima tappa di oggi è Pisticci. Il borgo, che sorge su una collina nell’entroterra della costa jonica, ci accoglie con un’atmosfera di festa. Ieri si celebrava San Rocco, festa molto sentita dai Lucani, come dimostrano gli addobbi che decorano ogni singola via, colorando il paese con le tinte delle contrade e le immagini del santo. Le case bianche e i viottoli intricati ci fanno innamorare subito di questa cittadina e della gente che la rende così viva e accogliente. Dopo aver esplorato ogni angolo, facciamo la spesa e partiamo alla volta della nostra seconda destinazione.

CracoCraco, il paese fantasma, è abbandonato da anni. Visto da fuori fa quasi impressione. Le finestre delle case sono buchi vuoti, i muri diroccati il segno dell’abbandono. Si capisce subito perché lo abbiano scelto come set per diversi film. Purtroppo i nostri tempi sono ristretti e non possiamo aggregarci alla prossima visita guidata, quindi ci accontentiamo di mangiare i nostri panini in compagnia di un falco, che si getta da un albero per ruotare sopra di noi. Il clima da paese fantasma è perfettamente ricreato, come nel desertico vecchio West con gli avvoltoi.

CastelmezzanoVolo dell'angelo 1Volo dell'angelo 2PietrapertosaCastelmezzano notteLe Piccole Dolomiti Lucane, che ricordano davvero le loro sorelle maggiori per le cime di pietra nuda che si stagliano possenti a tagliare il cielo, sono oggi la nostra meta principale. Mentre ci inerpichiamo sul monte per una statale con voragini e precipizi al posto delle classiche buche nell’asfalto, ci imbattiamo in una deviazione per frana (che ci fa allungare di mezzora il percorso) e ci fa incontrare una mucca e un cavallo che vagano solitari nel bosco. Finalmente arriviamo a Castelmezzano. Il piccolo borgo è davvero incantevole, ma non è solo per la bellezza del luogo che siamo qui. Abbiamo prenotato il Volo dell’Angelo. I tizi della biglietteria ci mettono ansia dicendoci che c’è mezzora di cammino in salita per la stazione di partenza e che siamo in ritardo. La facciamo col fiatone in 12 minuti. Tutta l’agitazione scompare quando veniamo imbracati e lanciati nel vuoto. Sotto di noi 500mt di vuoto, davanti a noi 2km di cavo d’acciaio da percorrere a 120km/h, dentro di noi tanta adrenalina e gioia di aver superato questa prova insieme.

Raggiungiamo in volo Pietrapertosa, una perla incastonata fra le rocce. Un ritardo nel volo di ritorno ci dà quasi 2 ore in più del previsto per visitare il paesino, salire al castello che lo sovrasta, da cui si gode una vista magnifica e fare nuove amicizie. Conosciamo una coppia molto simpatica e, mentre io mi perdo a parlare di viaggi con lui, l’Ele socializza con lei e con una bambina del posto. Anche qui scopriamo nuove persone e nuove mete per viaggi futuri. Il volo di ritorno, al buio e col vento forte e piovigginoso, è più impressionante del primo. Questa linea termina anche vicino alle case di Castelmezzano, dando quasi l’impressione di finire spiaccicati su un muro. Ce la godiamo alla grande.

Dopo quasi un’ora di strada da brividi, fra boschi e burroni nel buio pesto, raggiungiamo Laurenzana. Un tizio particolare ci accoglie nell’appartamento che abbiamo affittato, dove non c’è la cucina come ci aspettavamo. Alle 10 di sera, in un paesino con un solo ristorante, il fornellino da campeggio ci salva la vita. Spaghetti olio e cipolla è l’unica cosa che abbiamo da farci, ma con la fame che abbiamo ci sembra un banchetto. Lavare le pentole in bagno è un’altra esperienza che ci mancava.

Al mattino andiamo a Campomaggiore Vecchio, un altro paese fantasma. O meglio, la città dell’Utopia, creato dal conte Teodoro Rendina a metà del ‘700 come paese in cui non esistesse la povertà. Un’utopia di successo, durata oltre un secolo, fino alla frana del 1885 che lo ha quasi distrutto. Da lì, la fama di borgo fantasma arrivata fino ad oggi, che lo rende forse ancor più suggestivo. Col sorriso, per i luoghi visti finora e le esperienze vissute in essi, partiamo alla volta di Matera, meta finale del nostro viaggio in Basilicata.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

LEGGI LA TERZA TAPPA: La costa jonica

LEGGI LA QUINTA TAPPA: Matera

 

Basilicata coast to coast… e oltre! (Tappa 3: la costa jonica)

15-16 AGOSTO 2016

mappa-viggianello-metapontoLasciamo il Parco del Pollino con dispiacere. Ci siamo trovati benissimo e sappiamo già che ci torneremo in futuro. La prima tappa di oggi è Tursi. Uno dei pochi luoghi della Basilicata che ci è stato consigliato da più persone prima della partenza. Quando arriviamo, non ne comprendiamo il motivo.

CalanchiTursiRabatanaQuando il verde delle boscose montagne del Pollino – dove decine di allegre famigliole si accalcano nei prati per la tipica grigliata dell’Assunta – lascia spazio ai desertici Calanchi, con il loro aspetto grinzoso e poco ospitale, il sole alto di questo Ferragosto ci fa sentire immersi nelle scene di un film post-apocalittico. E Tursi incarna al meglio questa sensazione di disagio e tristezza. Non c’è nessuno. Non è un modo di dire, per davvero non c’è nessuno. Siamo gli unici a camminare fra questi viottoli arsi dal sole. E non capiamo cosa ci sia da vedere in questo paese. Miracolosamente incontriamo due signore, che ci suggeriscono di salire verso la Rabatana, il quartiere arabo. Speranzosi ci dirigiamo in quella direzione e troviamo un terzo abitante: un vecchio con 4 denti che ci indica la stessa meta con una risata sotto i baffi come a dire “poveri illusi”. Alla base di una grande salita che conduce al quartiere arabo, siamo ormai stremati dal caldo e dalla tristezza. Ci arrendiamo e torniamo all’auto, ma scopriamo di poterlo raggiungere girando attorno alla collina. Entriamo così da un portale in legno (probabilmente di una rievocazione storica) ma ancora una volta le nostre speranze di capire cosa ci sia da vedere qui si sciolgono in pochi secondi. Sarà stato il giorno sbagliato, ma finora Tursi è l’unica cittadina lucana a cui diamo un voto negativo.

Tavole PalatineA Metaponto ci arriviamo alle bollenti 2 del pomeriggio, senza aver pranzato e senza aver trovato dove pranzare in questo giorno in cui tutto è chiuso e tutti i Lucani sono a fare i picnic fra i boschi o a rilassarsi sulla spiaggia. Ci accontentiamo di mais in scatola e salamini, la nostra ancora di salvezza. Dopo il lauto pasto di fronte al museo archeologico, andiamo a vedere gli scavi del poco che resta a testimoniare la colonia della Magna Grecia. Più che gli scavi, dove è rimasto poco da ammirare, ci colpiscono le Tavole Palatine, i resti del tempio di Hera che ci ricordano la nostra visita ad Atene di un anno fa.

Treccina africanaGiusto il tempo di montare la tenda in campeggio e siamo a Policoro, dove almeno c’è un po’ di vita. Una pizza ci ridà l’energia che mancava dal pranzo, ma non disdegniamo anche una crépe mentre ci godiamo l’affollato lungomare con le sue bancarelle, che fruttano un paio di orecchini nuovi e una treccina africana per l’Ele.

Spiaggia PolicoroSpiaggia Policoro 50&50La giornata successiva la dedichiamo al mare. Scegliamo la spiaggia libera dell’area WWF davanti a Policoro, per trovare mare bello e pace intorno. Lungo la strada troviamo una casa di campagna che espone l’insegna “Frutta fresca in vendita”. Ci fermiamo e veniamo accolti da un vecchio in mutande che si mette addosso qualcosa di corsa prima di darci una scorta industriale di uva e susine per pochi spiccioli. Almeno oggi non moriremo di fame. L’infinita spiaggia jonica, che senza interruzione unisce Calabria e Puglia per tutta la costa lucana, è un’oasi di tranquillità. Come ormai da tradizione, lasciamo il nostro segno sulla sabbia, il 50&50 del nostro essere due metà dello stesso 1.

FornellinoLa cena è il clou della giornata. Da veri campeggiatori, con la birra infilata nella sabbia del bagnasciuga per raffreddarsi in mare e il fornellino a gas, ceniamo sulla spiaggia di fronte al camping. A pranzo la frutta era tanta, ma oltre a quella e a un sacchetto di patatine, non avevamo nient’altro. E il gelato per merenda era poca roba. Mezzo kg di pasta mangiata direttamente dal pentolino non ce lo toglie nessuno, anzi, è pure una cena romantica al chiaro di Luna.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

LEGGI LA SECONDA TAPPA: Parco del Pollino

LEGGI LA QUARTA TAPPA: I Paesi-fantasma e il Volo dell’angelo

Basilicata coast to coast… e oltre! (Tappa 2: Parco del Pollino)

13-14 AGOSTO 2016

maratea-viggianelloLasciata la caletta di Maratea, riprendiamo l’auto per dirigerci verso l’interno della Basilicata. Facciamo sosta a Laurìa: vedendola dal basso ci ispira e siamo attratti da una chiesetta che si innalza sul colle fuori dal paese, accanto alle rovine di una vecchia torre. Cercando di raggiungerla saliamo sul colle sopra al borgo e troviamo un cancello chiuso che dà sulla statale, dal quale parte un lungo viottolo a tornanti che scende fino al santuario. Lasciamo l’auto ed entriamo a piedi dal piccolo passaggio a lato del cancello. Grandi istallazioni di legno di una festa popolare colorano il viottolo e i coriandoli di un matrimonio celebrato da poco danno allegria al verde prato antistante la chiesa. Il panorama da questo terrazzamento è splendido.

ViggianelloA Castelluccio Superiore – e alla gemella Castelluccio Inferiore – facciamo una tappa rapidissima, perché non troviamo niente di che da vedere. Ci dirigiamo verso Viggianello, dove dormiremo per questi due giorni nel Parco del Pollino. Dopo che una vespa riesce ad entrarmi nella maglietta e a pungermi due volte, arriviamo in questa fresca cittadina nel cuore del parco naturale più grande d’Europa. Il ragazzo della Pro-loco a cui chiediamo qualche informazione non sembra avere la testa su questo pianeta. Ha lo sguardo stranito e le mani costantemente nei pantaloni. Una bambina sovrappeso risponde al telefono senza accorgersi che è collegato via bluetooth a un impianto che manda musica in tutta la piazza, così sentiamo tutti la conversazione con la madre.

Dopo un breve giro ci fermiamo al minimarket del paese, gestito dalla madre della bambina rotondetta, che ci riconosce e ci saluta mentre si ingozza di merendine. Arrivati all’appartamento, la prima cosa che ci dice il gentilissimo proprietario Francesco è di non spendere soldi in acqua, dato che a 500 metri c’è la fonte del Mercure, dove si può attingere gratuitamente l’acqua che la San Benedetto imbottiglia poco più a valle. Ci guardiamo pensando alla bottiglia San Benedetto appena acquistata al minimarket. Grazie a Francesco e alle sue mappe riusciamo a programmare un itinerario per il giorno successivo, mentre la serata viene allietata da una cover band di Pausini, Nannini e Modà, tutti cantati con un “leggerissimo” accento lucano. Di Lucano noi preferiamo l’amaro, che ci concilia il sonno dopo la giornata di viaggio.

Ele alla fonte sul PollinoPino loricatoLa domenica mattina il trekking ci aspetta: ci svegliamo presto e alle 9 siamo già a Colle Impiso, da dove inizieremo la nostra camminata. I sentieri sono segnati benissimo e non abbiamo problemi a seguire il percorso nel bosco fino a Piano Gaudolino, una valle erbosa alla base del Monte Pollino. Il sole è alto, ma fra gli alberi si sta d’incanto. Questa seconda parte del percorso è più dura: dopo essere scesi da 1573m a 1453 ed essere risaliti fino ai 1684 del Piano, adesso ci aspetta una ripida salita fino ai 2248m della cima. Anche in alto si sentono risuonare forte i campanacci delle mucche di cui è piena la vallata. Il bosco finisce di botto, lasciando spazio alle rocce e ai pini loricati, che sprezzanti delle condizioni impervie continuano a crescere su queste cime. Le montagne lucane sono le uniche, oltre ai Balcani, su cui cresce questa specie di pino, così chiamato per la corteccia che ricorda la lorice (armatura) degli antichi romani. Uno strapiombo impressionante ci toglie il fiato: il vento ci spettina e la vista si perde in un panorama mozzafiato. Ma non siamo ancora in cima.

Monte PollinoPrima dell’ultimo tratto di salita sentiamo delle voci: sul pendio dal lato opposto della vallata c’è una coppia che litiga: le urla risuonano fra le montagne e sentiamo tutto nonostante la grande distanza. Un ragazzo tedesco ci chiede di tradurgli la scenata. Noi ce la ridiamo per il dramma familiare letteralmente “gridato ai 4 venti”.  Dalla cima il panorama è grandioso: vediamo il blu del Mar Tirreno, la Calabria, il grande azzurro dello Jonio e persino il profilo della Puglia. Siamo appagati, felici. I panini con gorgonzola e melanzane sono la fine del mondo dopo la fatica provata, mentre la birra ci stende definitivamente. Scendendo facciamo amicizia con un branco di mucche e scopriamo un piccolo rifugio di legno nel quale chiunque può fermarsi e trovare l’essenziale per passare una notte sui monti. Un rifugio attrezzato più a valle, invece, ci fa scoprire un liquore di erbe di montagna talmente buono che ne compriamo una bottiglia da portare a casa.

Fonte del MercureLa fonte del Mercure è uno specchio d’acqua limpidissima e ghiacciata, che dà sollievo ai piedi nei pochi secondi in cui ce li immergiamo. Passare da qui prima di rientrare è stata un’ottima idea. Andiamo a cena alle 21.30, unico orario a cui è stato possibile prenotare alla Masseria Campo Le Rose, consigliataci da Francesco. La cena è uno spettacolo: per due ore consecutive ci vengono serviti antipasti di ogni tipo, a base soprattutto di prodotti della stessa azienda agricola, che gustiamo col vino della casa (ci specificano che non vendendolo non ci mettono solfiti, per cui se ne può bere a volontà senza rischiare il mal di testa). Facciamo amicizia con quelli del tavolo accanto, fratello e sorella con la moglie Danese di lui e il biondo pargoletto. Fra una chiacchiera e un piatto tipico, alle 23.30 ci facciamo portare delle tagliatelle tartufo e porcini che sono la fine del mondo, seguite dal dolce e dal digestivo al finocchietto selvatico. Il conto di 35€ totali (esatto! Totali! Non a testa!) per una cena così ricca e piacevole, con il cuoco che veniva al nostro tavolo scusandosi per non averci accudito nel migliore dei modi e mandandoci piatti su piatti di prelibatezze, ci fa davvero sgranare gli occhi. Ancora una volta, la Basilicata ci sorprende.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

LEGGI LA PRIMA TAPPA: Maratea

LEGGI LA TERZA TAPPA: La costa jonica

Basilicata coast to coast… e oltre! (Tappa 1: Maratea)

12-13 AGOSTO 2016

Alle 5.30 del mattino stiamo già caricando l’auto, pronti per questa nuova avventura alla scoperta di una delle regioni più sconosciute d’Italia. Abbiamo appuntamento alle 6 con Livia, una ragazza di Avellino che porteremo da Firenze a Salerno con BlaBlaCar. Ormai la condivisione dei viaggi è parte del nostro essere. Il viaggio passa velocemente: non c’è traffico e Livia è molto simpatica e chiacchierona. Lasciandola a Salerno poco prima di mezzogiorno, improvvisiamo una tappa a Battipaglia, la patria della mozzarella, per un panino “Bufala e crudo” che è la fine del mondo. Ce lo gustiamo in un parco pubblico dove sembra esserci la sagra dello zoppo: metà delle persone che ci passano davanti hanno le stampelle!

Mare MarateaMaratea è la nostra prima tappa lucana. La signora che ci ha affittato l’appartamento su AirBnb manda suo marito a prenderci con un motorino che non si capisce come possa fare certe salite senza autodistruggersi. A parte il puzzo di chiuso, la casetta è molto carina e rimaniamo stupiti dal trovare cinque diversi cestini per la raccolta differenziata, alla faccia di chi dice che al Sud non si riciclano i rifiuti.

Solo il tempo infilare il costume e partiamo alla ricerca di una spiaggia! La costa tirrenica lucana è corta (circa 30km) ma ricca di splendide calette. Una di queste, purtroppo raggiungibile solo via mare, è anche stata eletta Spiaggia più bella d’Italia 2016. Troviamo parcheggio vicino a una scalinata che scende al mare, pochi km a nord della città. La spiaggetta è piccola e carina, e troviamo un posticino su uno scoglio scavato che contiene una microspiaggia adatta proprio a ospitare due persone. Il mare è mosso, quindi facciamo solo un paio di tuffi, ma il Sole c’è e approfittiamo per riposarci un po’ dal lungo viaggio.

MarateaIl piccolo supermercato Papaleo (uno degli unici due di Maratea) è il luogo ideale per comprare un sughetto allo scoglio per la spaghettata della sera e un set di pentolini che ci serviranno fra qualche giorno in campeggio. Dopo la gustosa cenetta ci perdiamo per le vie del centro storico. La Perla del Tirreno (così è chiamata la cittadina) è davvero viva e piena di colori. Vediamo un paio delle 44 chiese per cui è famosa Maratea e assaggiamo un dolcetto tipico in una pasticceria, che però non ci entusiasma molto, anzi ci fa abbastanza schifo, ma forse abbiamo scelto male la pasticceria.

La famiglia di topolini che vive dietro la grata della nostra camera da letto non ci fa dormire molto tranquilli, ma per fortuna se ne stanno dietro al muro. Al mattino, l’abbondante colazione di cui è fornito l’appartamento ci dà il via per la nuova giornata. L’Ele avvista dall’alto un mercato e, con l’attrazione pazza che tutte le donne hanno per le bancarelle, cerca di arrivarci in ogni modo. Dopo varie strade sbagliate e numerose indicazioni a vuoto dei passanti, una vigilessa ci spiega come raggiungerlo. Stiamo scendendo una ripida e scivolosa discesa, quando una vecchia signora napoletana con la voce gracchiante da fumatrice accanita ci sceglie come suoi bastoni e ci prende entrambi a braccetto per non cadere, mentre inizia a raccontarci tutta la sua vita. Arrivati in fondo, continuano gli incontri della giornata: un uomo paffutello non si limita ad indicarci il mercato, ma ci racconta di tutte le sue vacanze passate a Maratea, ogni estate dal ’73 ad ora. Facciamo scorta per i prossimi pasti: un po’ di patate, una melanzana, un melone. L’Ele riesce anche a farsi regalare una cipolla.

Cristo RedentoreMare di MarateaRipresa l’auto, saliamo sul monte del Cristo Redentore, che sovrasta dall’alto la città e tutto il Golfo di Policastro. Le case abbandonate che vi stanno sotto contrastano con la vivacità della piazzetta, piena di negozi di souvenir, che separa il colosso bianco dalla chiesa. La vista da quassù è magnifica. Viste le previsioni di mare mosso, avevamo deciso di non andare in spiaggia, ma lo vediamo così calmo e azzurro, che non resistiamo e ci precipitiamo verso una delle calette più belle.

La Secca CastrocuccoLa Secca è una piscina naturale quasi al confine con la Calabria, il mare cristallino ti fa venir voglia di stare a mollo dall’alba al tramonto. Per non pagare l’ombrellone per stare un’ora sola, facciamo lo slalom fra i lettini che si accavallano sulla piccola spiaggia e troviamo un posticino sugli scogli dove posare gli zaini. Si sta così bene che anziché fare solo un tuffo veloce, ci stiamo fino a dopo pranzo, mangiando in compagnia dei piccoli granchi quintali di frutta: l’unica cosa che abbiamo dietro da non dover cucinare. Ma è ora di ripartire, stasera dormiremo in montagna!

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

LEGGI LA SECONDA TAPPA: Parco del Pollino

Ultimo anch’io: in musical la grandezza di Don Milani

Cinque anni fa nacque la compagnia. Iniziando con ‘Sogno di una notte di mezza estate’ e cambiando uno spettacolo all’anno, abbiamo messo in scena musical anche importanti come ‘Mary Poppins’. Abbiamo chiamato Alessandro l’anno in cui abbiamo inscenato ‘I Miserabili’, che ha una parte musicale moto difficile. Ad introdurre Alessandro Barbieri è Angelo Giamberini, regista della compagnia Fiaba Junior, il gruppo teatrale nato all’Isolotto e composto da giovanissimi attori e cantanti. Alessandro fra i tanti impegni delle sue giornate, ha deciso di scrivere un musical ispirato a don Lorenzo Milani. Un’opera che poteva restare una piccola pennellata di colore nell’ambito parrocchiale della periferia fiorentina, ma che grazie alla passione di chi ci ha creduto, sta diventando un quadro da ammirare a bocca aperta.

Fiaba Junior 1

Cos’è esattamente Fiaba Junior e come sei entrato a farne parte?
Il gruppo è nato da una cinquantina di ragazzi che girano intorno alla parrocchia dell’Isolotto. L’idea di base è quella di far crescere i ragazzi attraverso il teatro: i giovani e giovanissimi, con un’esperienza forte come questa, si mettono in gioco e maturano senza per forza seguire un percorso di fede. Mi hanno chiamato per fare ‘I Miserabili’ qualche anno fa e l’anno scorso abbiamo deciso che era arrivato il momento di fare uno spettacolo nostro.

Quanto conoscevi don Milani prima e come lo conosci adesso?
Lo conoscevo poco, quasi per nulla. Ho letto la biografia, ‘Lettera a una professoressa’, l’epistolario con la madre. Ho buttato giù le canzoni, poi ci abbiamo messo le mani insieme per tirare fuori lo spettacolo. Non poteva essere una semplice biografia, quindi abbiamo fatto come faceva lui: come i suoi ragazzi scrivevano insieme i libri, dando ognuno il proprio contributo a mettere dentro le cose importanti e togliere quelle inutili, così i nostri ragazzi hanno scritto il musical. Sono stati mesi di confronto e anche di scontro, non eravamo sempre tutti d’accordo, ma alla fine il risultato è stato bello.  Avendo scritto le canzoni, stavo in punta di piedi: non volevo che i ragazzi lo percepissero come uno spettacolo mio. Infatti la bellezza è stata che abbiano partorito insieme uno spettacolo loro. Sicuramente, adesso sono entrato, siamo entrati, davvero nell’essenza della scuola di Barbiana. Due settimane fa siamo stati a Barbiana con i ragazzi e per loro vedere che quei luoghi esistono, toccare la lontananza di quella chiesa dal resto del mondo, è stata un’esperienza forte e fondamentale di questo percorso.

Fiaba Junior 2Quali aspetti della vita del priore di Barbiana ti hanno dato ispirazione per le canzoni?
Nella prima parte del CD c’è la canzone ‘Ultimo anch’io’: don Lorenzo prima di morire dice “Adesso sono felice, perché sono ultimo anch’io”. Questa è una delle frasi che più mi ha ispirato, perché racchiude tutta la sua vita, la sua continua ricerca di essere uno degli ultimi. L’ho messa all’inizio, dopo le prime canzoni che parlano del giovane Lorenzo, della sua famiglia e delle sue passioni artistiche contrastanti con la volontà dei genitori, del suo periodo a Calenzano, perché anche se dice questa frase prima di morire, è qualcosa che lo caratterizza per tutta la vita. ‘Esilio’ è un dialogo fra due personaggi di cui non si dice il nome, ma si intuisce chiaramente che si tratta di mons. Tirapani che convince mons. Elia Dalla Costa a mandare don Lorenzo a Barbiana. È anche un pezzo in cui risalta l’influenza che lui aveva sulla gente di San Donato. Con ‘Monte Giovi’ si conoscono i montanari: l’incontro con loro sembra un presepe, con questi strani personaggi che vanno incontro alla luce che è il messaggio evangelico. Ci sono anche canzoni divertenti che spezzano un po’, ma i messaggi principali che abbiamo scelto di trasmettere sono due. Il primo è l’obiezione di coscienza, in senso lato: non fare come le pecore, ma saper dire di no a tutte le situazioni di ingiustizia, presenti e future. Il secondo è lo ‘Yes I care’, l’interesse per le cose e la capacità di prendersene cura.

Il musical non si è fermato alle quattro mura del Teatro Fiaba, cosa sta cambiando?
Il primo esperimento diverso è stata una rappresentazione dedicata alle scuole: 270 fra alunni ed insegnanti, rimasti entusiasti dell’iniziativa. Vista la tematica di fondo del musical, che quindi non è intrattenimento fine a se stesso, stiamo studiando la possibilità di portarlo nelle scuole come progetto formativo. Da quella giornata, infatti, ci siamo resi conto che il messaggio arriva e quindi non possiamo non portarlo avanti. C’è anche l’idea di un progetto musicale col Liceo Musicale Dante: adesso si canta su basi, ma se inserissimo una parte orchestrata sarebbe un ulteriore salto di qualità. La novità più grande è sicuramente la prima tappa fuori dal nostro teatro: grazie all’associazione ‘Con lo sguardo di Filippo’ – fondata da una coppia che ha perso il proprio figlio, per aiutare ragazzi con problemi oncologici – il 23 settembre saremo sul palco del Teatro Puccini di Firenze.

Andrea Cuminatto

Carcere di Prato: dimenticarsi delle sbarre grazie al teatro

Teatro Carcere 1Teatro carcere 2Alla domanda Come è nato il progetto?, uno dei protagonisti dello spettacolo ironizza: Facendoci arrestare! Lo scorso 19 maggio un’ampia platea di persone ha preso posto davanti al palco allestito nel carcere di Prato, per assistere ad una rivisitazione dei Promessi Sposi davvero particolare. L’iniziativa, ormai rodata negli ultimi anni, sempre con opere diverse, è nata da un’idea dei professori della scuola Datini che insegnano nella casa circondariale. La regista Lucia Cannone è una docente di lettere; Già in passato – spiega – ho utilizzato con i bambini la strategia di partire dalla lettura di un’opera, sviluppando poi il testo teatrale. È un modo in cui si riesce ad entrare nel vivo della storia e ad apprezzarla maggiormente. E hanno partecipato anche gli studenti del Datini, che si preparano a lavorare in campo alberghiero, allestendo un ricco buffet per il dopo spettacolo.

Sul palco, fianco a fianco, insegnanti e detenuti. Noi insegnanti ci mettiamo in gioco – afferma il Renzo della situazione – perché è un modo di approfondire i rapporti personali, e anche di avvicinare altri ragazzi alla scuola. Crediamo nell’importanza della scuola in carcere e tanti, vedendo che alle lezioni sono affiancati progetti di questo tipo, sono invogliati ad iscriversi.

Teatro carcere 3Nella cura della scenografia, dei costumi e dei trucchi, i veri protagonisti sono i detenuti, che partecipano con entusiasmo, ironizzando anche sulla propria situazione durante la recitazione. E così l’uomo che impersona Lucia strappa un sorriso al direttore quando, ad una battuta sulla libertà, aggiunge: Almeno un permesso?
Il teatro allenta le tensioni – dice uno degli attori – e ci aiuta a parlare, ad esprimerci. Inoltre, crea unione fra persone di diverse nazionalità: ognuno sul palco può trovare il proprio ruolo. Un compagno straniero aggiunge: Per noi che non siamo Italiani, è stato anche un modo per conoscere un’opera basilare della cultura locale, che altrimenti non avremmo mai letto.

Dietro le quinte c’è serenità, perché ciò che si presenta all’esterno è il frutto di un lavoro d’unità e collaborazione. Uno dei Bravi fa notare come Qui dentro si vede ogni persona per quello che è, anche nei confronti l’’uno dell’altro. Non c’è il razzismo che c’è fuori nei confronti di nazionalità e religioni diverse. Ed è un aspetto che risalta durante lo spettacolo. La diversa nazionalità degli attori, messa in luce soprattutto dalla lingua, non è una discriminante, anzi viene sfruttata in maniera positiva per caratterizzare i personaggi. Prescindendo dagli errori commessi, non è semplice la vita del carcere. Le attività come questa – sottolinea uno dei detenuti – sono davvero importanti per noi. Magari ci mettiamo anche in ridicolo sul palco, ma nelle ore in cui facciamo teatro ridiamo, scherziamo, a tratti ci dimentichiamo anche delle sbarre alle finestre.

Andrea Cuminatto

Carla e Davide, due colibrì per i rifugiati

Uno dei B&B di Carla e Davide
Uno dei B&B di Carla e Davide

Gli occhi di Davide si illuminano quando arriva Rasak ad abbracciarlo. Come gli altri ragazzi della casa, ormai è come un figlio per lui. Sua moglie Carla fa strada, brontola affettuosamente un giovane Pakistano che sta a letto col cellulare in mano, come farebbe con uno qualsiasi dei suoi figli nella stessa situazione. La scelta di Carla e Davide per accogliere il prossimo è stata radicale. La coppia di Lastra a Signa, in provincia di Firenze, ha 5 strutture adibite a Bed&Breakfast. Non case abbandonate, né attività che non funzionavano, ma B&B molto richiesti dai turisti stranieri, che ancora oggi chiamano per prenotare una camera dove, fino a pochi anni fa, soggiornavano per le vacanze fiorentine. Ma le camere non sono più disponibili. Seguendo l’input dell’economia di comunione – il principio del Movimento dei Focolari che prevede di donare a chi ha bisogno un terzo del guadagno della propria attività – Carla e Davide hanno deciso di convertire queste strutture in case di prima accoglienza per i rifugiati.

Davide con alcuni dei ragazzi
Davide con alcuni dei ragazzi
La festa dei colori a Loppiano
La festa dei colori a Loppiano

Abbiamo iniziato questo esperimento nel 2011 – spiega Davide – ed abbiamo ricevuto così tanto da questi ragazzi che con la grande migrazione del 2014 abbiamo scelto di ampliare questo servizio. Adesso abbiamo 93 ragazzi, divisi in 5 case. In questa casa sono 4 le etnie degli ospiti, ma nonostante le diverse provenienze, nonostante i differenti motivi che li hanno spinti a partire, a scappare, dal loro paese natio, sono tutti accomunati da un sentimento verso Carla e Davide che va oltre la gratitudine. Sono come i miei genitori – afferma convinto un ventenne del Burkina Faso – sono la mia famiglia. Carla scherza rispondendo: Sono una mamma un po’ stinta. Ha negli occhi la gioia quando sente questi nuovi figli parlare di quello che hanno imparato a scuola, di cosa hanno cucinato, delle cose che hanno fatto. È proprio questo senso di famiglia ciò che differenzia l’esperienza di Lastra a Signa dalle classiche strutture di prima accoglienza. Qui non bastano un letto ed un pasto, non basta neanche mandare i ragazzi ai corsi di Italiano e – per i più preparati – alle scuole serali per prendere la terza media. Diamo i nostri numeri di cellulare ai ragazzi – spiega Davide – e loro ci chiamano quando qualcosa non va. A volte hanno bisogno di aiuto, altre volte vogliono semplicemente raccontare qualcosa.

Carla, Davide e tanti amici
Carla, Davide e tanti amici

Per i due è stato diverso il primo impatto. All’inizio avevo timore di non riuscire ad integrarmi con loro – racconta lei – essendo io donna e loro tutti musulmani. Ecco, questo è un mito da sfatare. Non solo non ho mai avuto questo problema, ma abbiamo accolto persone che erano sposate fra cristiani e musulmani. Un aneddoto simpatico su questo riguarda il vescovo di Firenze. A Montelupo Fiorentino era stata accolta una famiglia, lui musulmano e lei cristiana, con 6 figli. Una domenica eravamo da loro e con lei ed i figli andavamo alla messa in una piccola chiesa della zona. Arrivati, però, la messa non iniziava e non capivamo il motivo. Ad un certo punto è apparso mons. Betori, che era lì in visita pastorale. Ha messo da parte l’omelia che si era preparato ed ha improvvisato parlando dell’accoglienza. Poi, dopo la messa, ha voluto parlare con loro e farsi raccontare tutta la loro storia”.

Uno dei nuovi "figli" di Carla e Davide
Uno dei nuovi “figli” di Carla e Davide

A Davide piace chiacchierare con loro allegramente, conosce ormai ogni storia, molte delle quali sono dolorose. Quasi tutti sono passati per la Libia, chi per cercarvi lavoro, chi per fuggire da situazioni già difficili. Qui hanno trovato la guerra, hanno trovato un paese in cui non ci sono più regole e il razzismo degli arabi nei confronti dei neri è fortissimo. Carla racconta tristemente come tanti si sono illusi di lavorare, ma al momento di chiedere la paga venivano picchiati, torturati, uccisi. La maggior parte viene chiusa in queste prigioni atroci, ricavate magari da vecchi vagoni ferroviari che si arroventano sotto il sole o da bunker sotterranei. Quando sono troppo piene vengono spinti sui barconi se non uccisi sul posto. Ma neanche le strade sono sicure: il razzismo nei confronti dei neri è tale che i bambini arabi si procurano delle pistole e giocano al tiro a segno con i ragazzi di colore.

Il dolore nelle parole di Carla è tangibile, mentre parla di ciò che ha sentito, ma le emozioni vengono fuori ancor più quando descrive la storia delle persone che ha conosciuto. Abbiamo accolto una ragazza nigeriana. Figlia di un pastore protestante, sposata con un musulmano, con un bambino di 3 anni. Un giorno la chiama il padre per dirle che hanno dato fuoco alla chiesa e sua madre è morta. Sono scappati in Libia, dove il marito poteva lavorare. Racimolati i soldi per il passaggio, gli è stato detto ce potevano scegliere fra 3 posti in stiva o un solo posto sul ponte con giubbotto di salvataggio. Lei era incinta: il marito ha mandato solo lei. Il barcone è affondato in mezzo al Mediterraneo e si sono salvati solo in 38 grazie ai giubbotti di salvataggio. Carla è stata per lei una figura fondamentale, che ha voluto accanto a sé anche alla nascita del bambino.

Lei e Davide sono ancora legati ai tanti passati sotto al loro tetto ed ora spostati in altre zone. Qualcuno siamo andati a trovarlo in Puglia, abbiamo preso un treno notturno e siamo stati là 3 giorni dice Davide entusiasta. Ci immedesimiamo nella storia del colibrì che vuole spegnere un incendio portando una goccia d’acqua col becco. Il leone lo rimprovera dicendogli che non riuscirà a spegnerlo, ma lui risponde ‘io faccio la mia parte’. La vita per lui e sua moglie va vissuta ogni giorno mettendo la famiglia al primo posto. E la loro famiglia, ora, ha centinaia di volti.

Andrea Cuminatto

Suor Lucia e il Baby Caritas Hospital di Betlemme

Suor Lucia MeyerSuor Lucia, francescana elisabettina, è una delle 4 sorelle – oltre che delle uniche 4 straniere – a lavorare nell’ospedale pediatrico palestinese Caritas Baby Hospital. Ascoltare la sua testimonianza all’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze è stato toccante e al contempo stimolante per i medici presenti in sala. Per me è un sogno essere qui – ha esordito emozionata la suora vicentina – in un ospedale di cui ho sentito parlar bene a livello mondiale. Ero infermiera già prima di farmi suora, ho fatto 4 anni di servizio con malati di AIDS a Padova e tirocinio di patologia prenatale. Sono arrivata a Betlemme 13 anni fa, dopo l’assedio, quando era quasi completamente distrutta.

Quello che ha scoperto come propria missione la suora infermiera è dare speranza alle persone che incontra nel quotidiano. Il nostro fondatore – ha continuato – ci ha dato due obiettivi primari: l’assistenza ai bambini di qualsiasi provenienza e religione, dalla prematurità (bambini nati prima del tempo) ai 17 anni di età, e allo stesso tempo l’aiuto e l’accompagnamento alle madri. Abbiamo compreso come sia fondamentale la presenza delle madri all’interno dell’ospedale, per i bambini e per il percorso familiare.

L’ospedale ha 230 dipendenti, quasi tutti arabi, per metà cristiani e metà musulmani. Suor Lucia spiega come in Palestina non ci sia una specializzazione medica in Pediatria, per cui gli aspiranti medici pediatri devono andare a studiare in Giordania, oppure in Europa o America. E poi non è detto che tornino, anche perché per chi torna le limitazioni governative sono tante. La difficoltà più grande della loro zona è dovuta ai muri di sicurezza israeliani, che non separano solo i confini di Stato, ma generano una vera e propria ghettizzazione dei villaggi, impedendo alla gente di muoversi liberamente all’interno della stessa Palestina. Che cosa c’entra questo con la sanità? Si chiede suor Lucia. Innanzitutto, l’occupazione delle terre e la necessità culturale di vivere in clan, fa sì che la gente costruisca in altezza anziché in larghezza, con edifici composti da spazi stretti e poco ventilati, quindi condizioni igieniche basse. Il controllo da parte di Israele dell’85% delle risorse idriche, non migliora la situazione. Per la popolazione araba, sposarsi e dare continuità generazionale al clan è culturalmente l’obiettivo primario: se gli impedisco di muoversi e avere contatti con gli altri clan, aumento le unioni fra consanguinei, il che dà vita a numerose patologie congenite.

Suor Lucia Meyer 2Dopo aver parlato della situazione in cui l’ospedale si trova, suor Lucia ha messo in luce alcune delle maggiori difficoltà che si trovano ad affrontare per curare i piccoli pazienti. Quando non possiamo curare qualche patologia mandiamo i bambini in Israele. Perché? Perché da Betlemme a Gerusalemme sono solo 8km, perché lì hanno tutte le specializzazioni, perché la guerra è a livello politico, di gerarchie, ma quando si tratta di persone, di professionisti, salvare la vita ai bambini viene prima della loro provenienza. Nonostante il gemellaggio che abbiamo, però, non è tutto semplice. In Israele se è un bambino è più vicino alla morte che alla vita, non viene accolto nelle strutture sanitarie. Queste sono private e i Palestinesi, stranieri per Israele, non hanno assicurazioni sanitarie. Una difficoltà ulteriore è data dal fatto che quando sorgono problemi con una persona, viene bollato tutto il suo clan, quindi un bambino potrebbe essere discriminato per questo. Inoltre non è scontato gestire la coincidenza delle ambulanze dei due ‘Stati’, fino al check-point di filo spinato ed oltre confine.

Foto e video mostrati da suor Lucia hanno toccato nel segno più di tante parole. Il nuovo “gemello” palestinese dell’ospedale fiorentino è un luogo in cui l’amore per i bambini è tanto forte da superare ogni ostacolo.

Andrea Cuminatto

Il Meyer di Firenze ha un nuovo “gemello” a Betlemme. Lo presenta il Fiorentino vescovo in Turchia

L'incontro all'ospedale Meyer di Firenze del 18/04/2016
L’incontro all’ospedale Meyer di Firenze del 18/04/2016

Era entusiasta il direttore del Meyer Alberto Zanobini, per l’incontro di lunedì 18 aprile 2016 con suor Lucia (La prossima settimana la storia di Suor Lucia) e Mons. Paolo Bizzeti, in cui l’ospedale pediatrico ha confermato pubblicamente la volontà di dar vita ad un gemellaggio con il Caritas Baby Hospital di Betlemme. Il Meyer – ha spiegato Zanobini – ha inserito nei suoi principi, nella sua costituzione, il dovere alla costante attenzione alla situazione internazionale, ma anche ad essere presente nella scena internazionale per la difesa dei bambini.

Mons. Bizzeti è vescovo dell’Anatolia, regione della Turchia afflitta dal problema dei profughi di guerra. Sono felice di tornare nella mia città natale, Firenze, per questa bella occasione, ha affermato durante l’incontro. Da alcuni mesi vivo nel sud della Turchia, ma già da anni organizzo pellegrinaggi alternativi in Israele e Palestina. Viaggi con la bibbia in mano, ma attenti a tutte le realtà del Paese, alle ‘pietre vive’ di un Paese dalle varie sfaccettature. Una di queste è certamente l’ospedale pediatrico di Betlemme, dove opera suor Lucia.

Il C.B.H. è l’unico ospedale pediatrico della Cisgiordania, e non vive una situazione semplice. Nato nel 1952 per volontà di un religioso svizzero, è cresciuto negli anni, diventando un punto di riferimento per la realtà locale. La vigilia di Natale del 1952 p. Ernst Shnydrig, in pellegrinaggio verso la grotta della Natività, si imbatté in un padre che seppelliva il proprio figlio, morto per freddo e denutrizione. Lui e i suoi compagni, fra cui un medico, si chiesero come fosse possibile una situazione del genere e iniziarono a girare ogni abitazione del vicino campo profughi. Fra i tanti bambini denutriti, presero i 14 nelle condizioni peggiori ed affittarono due stanze per accoglierli. Come membro della Caritas tedesca, padre Ernst riuscì a coinvolgere le diocesi tedesche oltre che quelle svizzere, per avere aiuti economici. Fondò così un’associazione, composta da laici ed ecclesiastici, e diede il via a quello che adesso è il Caritas Baby Hospital.

Il C.B.H. – ha proseguito il vescovo – è una realtà piccola, che però opera con lo stesso spirito del Meyer: l’attenzione a chi si trova in situazioni di fragilità. Anche nella città in cui mi trovo ora in Turchia, le situazioni di fragilità sono tante e simili a quelle che suor Lucia affronta a Betlemme. Negli ultimi anni sono nate ben 8 scuole private per i bambini dei profughi siriani, perché non è possibile farli accedere all’istruzione pubblica. Qui ci scandalizziamo per qualche attentato, mentre lì centinaia di migliaia di persone subiscono attentati continui da anni, qualcuno fin da quando è nato. Il mio predecessore è stato ucciso: il Papa, con la mia presenza lì, ha voluto rimettere una goccia che mancava, ma io vorrei costruire un ponte fra qua e là.

Andrea Cuminatto

Alluvione di Firenze: il prete che puliva le strade col Caterpillar

Particolare di una foto dell'alluvione del 1966 a Firenze, nel quartiere di San Niccolò in Oltrarno
Particolare di una foto dell’alluvione del 1966 a Firenze, nel quartiere di San Niccolò in Oltrarno

La ricordiamo come la notte degli schianti: all’alba del 4 novembre 1966 il fragore dell’arno in piena era accompagnato dagli STUMP STUMP STUMP dei mobili e dei bidoni che erano rimasti incastrati al Ponte alle Grazie, dato che l’acqua era troppo alta perché potessero passare sotto l’arcata. Alle Sieci l’acqua aveva portato via i bidoni d’olio della Chelazzi, che rimbalzando contro il ponte suonavano come tamburi di morte.

Don Giampietro Gamucci è ancora oggi, all’età di 92 anni, priore della chiesa di San Niccolò Oltrarno a Firenze. Nel ’66 era già parroco della piccola chiesa sotto al Piazzale Michelangelo, e fu uno dei tanti a dedicare ogni attimo di quell’incubo all’aiutare la gente. Aveva piovuto tutto il mese precedente ricorda  don Giampietro – e la sera del 3 novembre pioveva ancora più forte del solito. Alle 5 del mattino squillò il telefono: era l’amministratore dei beni della Chiesa, che mi avvertì del pericolo dicendomi che a sud di Firenze era tutto sommerso. Corsi alla finestra e vidi che già le strade erano allagate e dalle fogne usciva melma che avvolgeva le auto parcheggiate. Per fortuna era un giorno di festa e la maggior parte delle persone era a casa.

Don Giampietro Gamucci intento a raccontare la sua storia
Don Giampietro Gamucci intento a raccontare la sua storia, con il manifesto fatto un anno dopo dal comitato di quartiere per la ricostruzione

Rischiai di rimanere fulminato quando andai staccare la corrente in mezzo agli scrosci d’acqua. La prima cosa che feci, quando era ancora buio, fu quella di andare in chiesa a prendere il Santissimo, per portarlo al sicuro al piano di sopra. Fu subito dopo l’alba che, avvicinandomi all’Arno, vidi iniziare la vera tragedia: l’acqua saliva sempre di più bloccando gli accessi alle case e rendendo impossibile muoversi per strada in quel fiume di fango. Addirittura due signore straniere, che incontrai la mattina mentre cercavano di ripulire il loro Maggiolino, ritrovarono la macchina appesa ad un albero. Io passai la mattina barricato in canonica, dopo aver staccato le corde delle campane, nel caso avessi dovuto uscire calandomi dalla finestra.

Don Giampietro è ancora lucido, e racconta la vicenda come se fosse successa ieri, a tratti con sofferenza, a tratti con un pizzico d’entusiasmo per quello che riuscì a fare nell’urgenza del momento. Nel pomeriggio – continua – l’acqua aveva smesso di salire. Un amico, Alessandro Marzocchini, aveva una barca a motore che d’inverno teneva in garage a Firenze. Andai da lui, che si immerse e riuscì a tirarla fuori. La pulimmo velocemente e la usammo per fare la spola dallo stadio, dove arrivavano i rifornimenti per l’emergenza. Capitò che con il mio buono, che serviva ad avere un prosciutto e un salame, riuscii a prendere non so come 4 prosciutti e 10 salami. Almeno permisi a tanti parrocchiani di mangiare qualcosa di diverso dal latte in polvere.

Quadri dell'epoca in casa di don Giampietro
Foto dell’epoca in casa di don Giampietro

Il problema più grande fu la pulizia dal fango – ricorda con una nota di dolore – ma fu anche il momento in cui si creò più unità fra le persone. Io pensai subito al sig. Passaleva che lavorava ai cantieri del comune: avevano un trattorino, che presi per pulire le strade. Poi andai dai costruttori Pontello: mi misi alla guida di un Caterpillar e iniziare a ripulire il quartiere. Di giorno spingevamo il fango nell’Arno e facevamo dei mucchi con i mobili e gli oggetti ormai da buttare. La sera davamo fuoco a queste grandi pire e tutta la popolazione vi si riuniva intorno, unita dalla sofferenza comune.

In ogni aneddoto sulla fatidica notte e sui giorni a venire, il parroco dell’Oltrarno sottolinea sempre l’ironia che contraddistingue i Fiorentini, anche nei momenti di difficoltà. Fra gli altri, non si stanca mai di ripetere l’episodio della notte di Natale di quell’anno quando, in piena fase di ricostruzione, il Papa Paolo VI venne a dire la messa nella basilica di Santa Croce. Paolo VI faceva l’omelia sul Natale e disse la frase “In questa notte in cui volano gli angeli…”, ma non riuscì a finirla che dalla folla si sentì gridare “Son volate tante Madonne che ora un c’è più posto per gli angeli!”

Andrea Cuminatto

M’illumino di blu… per l’autismo

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Il Castello dell’Imperatore a Prato
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La statua della Vittoria ad Empoli

Quasi un bambino su cento nasce con sintomi d’autismo, più o meno accentuato, e ancora non si conoscono le cause di questa patologia. Nel 2007 l’ONU sancì che il 2 aprile di ogni anno sarebbe stata la Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo. Va da sé che, come ogni giornata di questo tipo, non è con un anniversario che si guarisce una malattia, ma avere un appuntamento mondiale stimola ad iniziative di sensibilizzazione importanti.

Anche in Toscana, come nel resto del mondo, molti comuni hanno aderito all’iniziativa Light it up blue, l’illuminazione con luci azzurre di monumenti o edifici, per portare l’attenzione della gente sulle problematiche legate a questo disturbo che affligge tante persone.

Così, se nel capoluogo toscano il Biancone ha perso per qualche ora il suo candore, stupendo tanto i Fiorentini quanto i turisti, ad Empoli è stata la statua della Vittoria a cambiare colore. Sia l’assessore di Firenze alla sanità Sara Funaro, sia l’assessore empolese alle politiche sociali Adriana Poggi, hanno voluto sottolineare l’importanza della sensibilizzazione perché il primo problema delle persone affette da autismo – e delle loro famiglie – è la solitudine nell’affrontare questa situazione.

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La Torre di Federico II a San Miniato
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La Torre pendente a Pisa

Se a Certaldo Giovanni Boccaccio ha cambiato colore, tanti comuni hanno scelto di illuminare il municipio, come segno che l’amministrazione comunale si impegnerà in maniera più convinta su questa problematica. Il colpo d’occhio maggiore era sicuramente visibile dalle due superstrade toscane. Percorrendo la Firenze-Pisa-Livorno nella notte del 2 aprile, significava veder svettare un’elettrica Torre Federiciana dal colle di San Miniato. Dalla Firenze-Siena, invece, le mura di Monteriggioni erano uno spettacolo ancor più unico di quanto non lo siano ogni giorno. Quando si decide di sensibilizzare le persone ad un tema – ha sottolineato il sindaco della città murata Raffaella Senesi – anche i gesti e i simboli diventano importanti. Nasce con questa intenzione la nostra adesione e il nostro sostegno a questa iniziativa che riguarda una parte rilevante della nostra società e verso la quale dobbiamo nutrire sempre sentimenti di profondo rispetto e doveroso aiuto.

Sensibilizzare ad un problema ricordando che esiste, però, non basta. Lo hanno dimostrato con i fatti, fra le altre, le città di Pisa e di Lucca che, oltre ad illuminare rispettivamente la Torre Pendente e le mura cittadine, si sono svolte importanti iniziative di beneficenza. A Pisa la biblioteca storica è stata aperta per un’apericena con concerto, il cui ricavato è stato dedicato ad un progetto di musicoterapia. A Lucca, invece, il Comune ha aperto i locali della Ex Cavallerizza per una serata di raccolta fondi a favore di Anffas, Angsa, Negozio “Cose e Persone”, centro Peter Pan e centro Allenamente di Firenze.

Andrea Cuminatto

Prepararsi alla Pasqua… convertendosi

È sempre più comune ricevere i sacramenti, in particolare quello della confermazione, da adulti. A Firenze saranno 30 i catecumeni che riceveranno la cresima la notte di Pasqua, non solo italiani, ma diverse nazionalità. Sono diverse le ragioni che portano ognuno a questa decisione, quando non sei più un adolescente che sta terminando il percorso catechistico in parrocchia. Ciò che è sicuro è che, da adulti, la scelta è consapevole.

Jennifer, una delle catecumene che riceveranno la cresima la notte di Pasqua
Jennifer, una delle catecumene che riceveranno la cresima la notte di Pasqua

Jennifer Larsson è svedese, da 7 anni vive e lavora in Italia e fino allo scorso ottobre si considerava agnostica. Credevo in un’intelligenza sovrannaturale – afferma – ma avevo difficoltà a credere che Dio potesse essere dimostrato e compreso tramite libri scritti dall’uomo. Il primo passo verso la Chiesa lo ho fatto grazie al fidanzato: Nicola è cattolico e voleva sposarsi in chiesa, io votavo per il comune. Il matrimonio misto non era una scelta, semplicemente l’ho sempre visto come un modo per distorcere la religione e renderlo una comodità che debba adattarsi alle nostre scelte, invece dell’opposto. Quindi, prima di decidere di sposarmi davanti al sindaco piuttosto che davanti a Dio, sentivo la forte necessità di conoscere meglio la cristianità. Ho contattato P. Scott Murphy della Chiesa dei Santi Apostoli, che avevo avuto la fortuna di incontrare al matrimonio del fratello di Nicola, per chiedergli di guidarmi negli studi. Lui mi ha subito accolto e ha reso il mio cammino una vera gioia.

Ovviamente per Jennifer, come per tanti, lo scetticismo iniziale nel conoscere una realtà nuova è forte: al primo incontro – prosegue – non ero sicura di volermi convertire, ma mi ci è voluto davvero poco per capire che invece avevo trovato la strada giusta, e non sarei più tornata indietro. Ho aperto gli occhi ed è stato proprio Gesù, tramite i Vangeli, a professarmi la parola e la verità. Ora capisco che la mia mancanza di fede era in realtà una conseguenza del mio buco di ignoranza: un buco che ora sto riempiendo di sacre scritture, parole di verità, compassione e acqua viva. Cerco di vivere ogni giorno secondo la volontà di Dio e vedo che questo stile di vita arricchisce non solo me, ma anche chi mi sta intorno. Guardando indietro, mi rendo conto di quanto sia distruttivo vivere una vita dove l’ego sta al centro piuttosto che Dio, e prego che più persone siano guidate nella giusta direzione.

Anche Alexandra Lange è cresciuta in una famiglia che non le ha dato educazione religiosa. Anche se non mi sono mai dichiarata atea – racconta – durante l’adolescenza ero molto lontana da Dio, presa dai miei obiettivi di trovare l’indipendenza economica e di realizzarmi professionalmente. A 30 anni sono entrata in una profonda crisi esistenziale: nonostante avessi realizzato i miei obiettivi, ero profondamente infelice. Ho lasciato tutto: fidanzato, lavoro, il paese in cui lavoravo. Alexandra è arrivata così in Italia con una grande sete, quella che definisce una ricerca intensa quasi disperata di un senso della vita.

Alexandra, altra catecumena, con Fra Federico e Fra David, che l'hanno accompagnata nel suo cammino
Alexandra, altra catecumena, con Fra Federico e Fra David, che l’hanno accompagnata nel suo cammino

Buddismo e New Age, Esoterismo e Cabala: le ha provate tutte in questo periodo di ricerca. Ho cercato in varie correnti spirituali – continua – e in uno dei tanti esercizi spirituali ho ritrovato la connessione con Dio e ho provato la sensazione di essere tornata a casa. Ma mi sentivo sempre molto sola nella mia ricerca, non riuscivo a trovare persone che avessero la mia stessa sete. Dopo 3 anni ho cominciato a frequentare la parrocchia di Porto Cervo, ma più per voglia di conoscere nuove persone e simpatia per il parroco. Avevo i soliti pregiudizi verso la chiesa, come istituzione antiquata e fuori moda. Ma con ogni omelia scoprivo con stupore il fascino di Gesù e realizzavo con gioia che la Chiesa cattolica mi permetteva di attingere pure gratuitamente ad una saggezza sconvolgente. Quando per lavoro mi sono trasferita a Firenze, ho sperimentato nuovamente una grande solitudine spirituale e ho pregato tanto di trovare un gruppo o una parrocchia con cui condividere la mia fede. Tre anni fa ho conosciuto i Frati Minori Francescani alla Verna: avevo passione per San Francesco e volevo conoscere chi aveva scelta di seguire questo meraviglioso santo. Ho partecipato ad una settimana di ritiro al Santuario della Verna e ho trovato una guida spirituale: fra’ Federico. Ho sperimentato la bellezza di un accompagnamento spirituale. Dopo un anno ho capito che dovevo fare una scelta: dovevo smetterla di saltare da una via spirituale all’altra prendendomi sempre solo il meglio di ognuna a comodo mio. Così ho chiesto il battesimo e la mia vita è cambiata. Oggi non sono più acqua stagnante, ma fiume che scorre fluidamente.

Andrea Cuminatto

Al servizio dell’altro. La mensa Caritas di via Baracca a Firenze

Mensa Caritas 1Alle 8.30 di una piovosa mattinata di febbraio, il traffico in una delle principali arterie fiorentine è caotico. Fra un clacson che suona e una pozzanghera trasformata in fontana da un pullman, ognuno guarda davanti a sé, con la propria fretta come unico obiettivo. Intanto in quell’edificio di via Baracca, dietro i muri grigi come il cielo di questa mattina, decine di persone si muovono dall’alba per fare qualcosa di unico.

Bussi, ti apre un sorridente Francesco, che accoglie i nuovi volontari con entusiasmo. Grembiule, guanti, cuffia: dopo pochi minuti sei già agli ordini di una cuoca frenetica che ti brontola per come tagli il formaggio o di un anziano volontario che ti mostra con perizia come pulire il radicchio. Enza è una delle veterane del posto, fa servizio alla mensa da oltre 25 anni. Ci troviamo fianco a fianco a preparare il sugo per la pasta di oggi. Mentre apriamo insieme le tante confezioni di pesce surgelato donate alla Caritas, iniziamo a parlare del più del meno. Dopo una ventina di pacchi siamo già immersi in un’intensa conversazione. Quando il pentolone è pieno, è nata un’amicizia.

Mensa Caritas 2Giù, nel magazzino, i ragazzi di Villa Pepi – giovani rifugiati Africani, arrivati nei mesi scorsi attraverso il Mediterraneo – preparano le verdure per i prossimi pasti. I più poveri al servizio dei più poveri: accolti a Firenze, senza niente in tasca, decidono di mettersi al servizio degli altri. Il servizio accanto a loro diventa anche occasione di confronto interculturale. Da dove vieni? Stai imparando un po’ di Italiano? Ti piace Firenze? Vedere due ventenni nati a migliaia di chilometri che parlano mentre affettano carote e cipolle è una scena che dovrebbe essere negli occhi di tutti, soprattutto di chi governa questo Paese, questi Paesi.

Quando le porte si aprono il clima è di festa. Non si protesta col cameriere per la cottura della pasta, non ci si lamenta perché al tavolo accanto fanno chiasso. Si sorride, tutti. A volte è difficile: non ci sono solo stranieri, non ci sono solo clochard. Tanti Italiani, tanti giovani che potresti incontrare in ufficio, sul treno, in fila alle poste, senza mai pensare dove pranzano oggi. Ma qui ognuno è accolto allo stesso modo, c’è da mangiare per tutti, c’è posto per tutti. Dire “buongiorno”, sorridere, fa parte del servizio. Non si dona solo un pasto, si dona un momento di condivisione, di gioia.

Andrea Cuminatto

 

 

 

L’organista inglese che fa rivivere a Firenze la musica del Cinquecento

Organo Badia Fiorentina 3Organo Badia Fiorentina 2La Badia Fiorentina è stata protagonista, dal 13 al 15 febbraio, di un evento nascosto. L’organo del 1558 di Zeffirini presente nella chiesa di via del Proconsolo a Firenze, è stato suonato dall’organista inglese Robin Walker per la registrazione di un disco, realizzato con la collaborazione di don Mario Costanzi e del suo studio Suonamidite.

Walker vive vicino a Cambridge e insegna musica d’organo alla Royal College of Organists Academy. Anni fa ha vissuto un periodo a Firenze ed è rimasto innamorato della città e dei suoi luoghi più segreti, fra cui la Badia Fiorentina, in cui si trova quest’organo davvero unico nel suo genere. Il disco è tutto di musica del 1500 – spiega – e di diverse nazionalità. Quest’organo è il più adatto a suonare musiche di quel periodo composte in Paesi diversi, a causa della sua storia: proprio nel periodo in cui è stato costruito, in tutta Europa si stavano iniziando a fare organi specializzati per la musica del luogo. Ogni paese ha il suo stile musicale e l’organo è uno strumento che rispecchia nei suoni il modo di parlare della gente, la maniera in cui le persone mangiano, si atteggiano, vivono. Ecco, quest’organo era per l’epoca un po’ ‘vecchio stile’: era stato realizzato in un momento di transizione, con tante influenze del passato comune europeo, prima della definizione di stili diversi. Per questo, non avendo influenze specifiche, è così adatto a suonare musiche italiane come inglesi, tedesche come olandesi.

Organo Badia Fiorentina 4Con i microfoni sparsi per la chiesa, perché il suono di questo strumento vola nell’aria avvolgendo tutto l’ambiente, è stato possibile captare queste note di 5 secoli fa, riscoperte da un grande musicista contemporaneo. Mentre i giganteschi mantici pompano l’aria nascosti dietro al muro, i tasti più piccoli di quelli moderni costringono le dita a movimenti obbligati, rendendo naturale una sequenza di note apparentemente strana. Nel suonare devo cercare di immaginare la musicalità di quel tempo, e nessuno sa com’è. Ma la struttura della tastiera non permette di muovere le dita con sequenze a cui siamo abituati. Gli spazi ristretti mi obbligano a suonare in un modo che probabilmente era quello dell’epoca.

In un ambiente come questa chiesa, i ritmi del XVI secolo nelle orecchie, chiudendo gli occhi e riaprendoli davanti ai dipinti di Lippi e Vasari, avvolgono l’ascoltatore facendolo tornare indietro nel tempo, in un’epoca dalle arie magiche e cariche di mistero. Ma in uno strumento tanto imponente e autorevole, si nascondono dei giochi: due tasti segreti attivano suoni  speciali con meccanismi intercambiabili, dando la possibilità di riprodurre, anche grazie a giochi d’acqua, lo squillo di una tromba, il cinguettio di un uccellino, il frinire di un grillo.

Andrea Cuminatto

Combattere le dipendenze. Maurizio e la rinascita dal gioco d’azzardo

Maurizio Papa Giovanni XXIIIMaurizio appare tranquillo, sicuro di sé, a suo agio con tutti. Ha 50 anni e viene dalla provincia di Pavia, dove è nato e cresciuto. Adesso però lavora a Rimini per l’Associazione Papa Giovanni XXIII, che l’ha accompagnato in un percorso di riabilitazione da una dipendenza: il gioco d’azzardo.

La mia è la storia di un dipendente da gioco d’azzardo, nello specifico ippica, dai 23 ai 48 anni – racconta Maurizio a Firenze, in occasione della Giornata per la Vita 2016un quarto di secolo da giocatore. La mia dipendenza è iniziata quando, nel giro di un anno, mi sono venuti a mancare entrambi i genitori, 2 nonni, 2 zii e un cugino. Fino a quell’età la mia vita era stata pressoché perfetta: ero figlio unico e vivevo in un paesino in cui ci conoscevamo tutti, in una famiglia benestante e rispettata. Quando è morto mio padre e, poco dopo, mia madre, ho lasciato l’università per lavorare con una ditta di Milano. Mi mandavano a giro per l’Italia e quando tornavo a casa il fine settimana e aprivo la porta non trovavo più nessuno, era come avere un buco nero. Inconsciamente cercavo qualcosa di negativo che riempisse quel vuoto che si era creato.

All’epoca giocavo a basket e l’unica situazione in cui riuscivo a sfogarmi in modo positivo era lo sport. Come ho iniziato a giocare ai cavalli è stato un po’ un caso, probabilmente poteva essere l’alcol o qualcos’altro, ed è capitato quello in quel momento. Poi questo vuoto da riempire ha fatto sì che ci dedicassi sempre più tempo finché non ne sono diventato dipendente. Lavoravo tanto, ma con l’obiettivo sbagliato: facevo il rappresentante e se avevo 30 clienti da cui andare, andavo da 40, per avere più soldi da giocare il fine settimana. Non pensavo a cose da comprare o viaggi da fare: tutta la settimana calcolavo i soldi che guadagnavo da giocare quando rientravo. Quando entravo in agenzia, in quelle ore, ero in pace: tutti i problemi sparivano. Ma quando ne uscivo, i sensi di colpa si moltiplicavano. La reazione però non era “smetto”, ma “domani torno a rifarmi, sia economicamente che moralmente”.

Maurizio Papa Giovanni XXIII 2Sono stati 25 anni di vita falsa: quando il denaro inizia a scarseggiare ti inventi di tutto e vivi nella menzogna. La cosa brutta di questo tipo di dipendenza è che non si riconosce dall’esterno. Un alcolista, un drogato, li riconosci: un giocatore d’azzardo è più subdolo se non lo vuoi accettare, se lo vuoi evitare o aiutare. Tu stesso non ti vedi diverso e non riesci ad ammettere di avere un problema. La mattina ti guardi, sei lo stesso, non riconosci di essere dipendente da qualcosa, e quindi non pensi di dover chiedere aiuto.

La scelta di cambiare è arrivata da amici e parenti: mi hanno detto che smettevano di sostenermi. Che se non accettavo di farmi aiutare seriamente, lasciavano che fossi solo e che diventassi un barbone. Lì ho deciso di chiamare la Papa Giovanni XXIII e di entrare in comunità. Il percorso in comunità è stato difficile e spesso volevo rinunciare e tornare a casa, ma ciò che mi ha fatto andare avanti è stato il pensiero “voglio di nuovo la possibilità di essere uomo“.

Maurizio non rimpiange tanto le perdite materiali. L’unica cosa materiale che davvero non vorrei aver perso – dice con nostalgia – è la casa dei miei genitori che ho venduto. Ciò che rimpiango davvero sono i 25 anni della mia vita, gli anni del vero Maurizio che non ci sono stati, quel Maurizio che c’era fino a 23 anni e che è riapparso solo a 48. Rimpiango tutto quello che la vita non potrà più darmi indietro rispetto agli affetti, ai parenti e agli amici, in questi 25 anni.

Andrea Cuminatto

Combattere le dipendenze. Andrea e la rinascita dall’eroina

Andrea Papa Giovanni XXIIIParto dalla mia infanzia, perché in comunità si cercando tutti i motivi, le cause, della tossicodipendenza, e le troviamo nell’infanzia e nell’adolescenza. Andrea, giovane Pescarese, è da due anni in una comunità dell’Associazione Papa Giovanni XIII a Rimini, e sta concludendo il suo percorso di recupero dalla tossicodipendenza. Adesso sta bene fisicamente, ma soprattutto ha ritrovato un po’ di quella pace interiore che per anni aveva perso.

Quando avevo 5 anni i miei genitori si sono separati in maniera molto conflittuale. Ho vissuto in un clima agitato in famiglia fin da piccolo e a lungo non ho visto mio padre, quindi per me la famiglia era composta da me, mia madre e mio fratello. Verso mio padre provavo rancore perché lo vedevo come la causa di tutti i mali: mi aveva abbandonato. Con mia madre, e con tutti i suoi compagni, il rapporto era difficile: le volevo bene ma non mi sentivo libero di esprimerlo nel modo giusto.

Durante il periodo della scuola, specialmente negli anni delle superiori, Andrea sottolinea come avesse bisogno di sentirsi parte di un gruppo. Far parte di un gruppo per me ha voluto dire fare cose non sempre positive. Consideravo come “i migliori” quelli che erano al centro dell’attenzione, anche se lo erano per motivi negativi. Mi sembrava che tutto ciò che facessero non avesse conseguenze per loro, e quindi cercavo di imitarli. Così non riuscii a dire di no quando mi offrirono la prima canna. “Chissà cosa pensano di me?” era ciò che avevo in testa ogni volta che mi veniva proposto qualcosa: per questo dicevo di sì a tutto.

Sentirsi parte di un gruppo è una cosa bella, la sto vivendo adesso in comunità. Ma a quel tempo, pur di sentirmi parte di un gruppo, accettavo qualunque gruppo e qualsiasi compromesso. A 17 anni ho iniziato a usare l’eroina. All’inizio farmi le canne con questo gruppo mi faceva sentire meglio degli altri, pensavo al momento ed ero convinto che non avrei avuto dipendenza. Mi dicevo “Posso fare qualsiasi cosa, smetto quando voglio, non diventerò uno di quelli che stanno per strada a chiedere soldi”: invece diventi proprio così. Mi sentivo solo: ogni giorno recitavo una parte, la parte di quello che non lo tocca niente, che è forte e sta bene sempre. Non ero libero di dire come stavo e provavo la vera solitudine. Mi avvicinai all’eroina per combattere questa solitudine.

Mi sono sentito messo da parte quando ho iniziato a rendermi conto che i miei amici di sempre, quelli con cui ero cresciuto, hanno iniziato ad evitarmi per ciò che facevo. Da lì la mia vita è precipitata, riempita in tutte le giornate dalla droga, dai tempi scanditi dalla tossicodipendenza. A 22 anni sono entrato in comunità non per scelta, ma per scappare dai problemi familiari. Dopo 8 mesi sono tornato a casa ma ci sono ricaduto, ho ricominciato a bucarmi ed è andata peggio di prima.

Adesso, a 28 anni, Andrea è da 2 anni in una casa famiglia della Papa Giovanni XXIII: una struttura dove non ci si sente in ospedale ma in famiglia. Un luogo in cui la quotidianità è scandita dallo stare insieme, dal fare le cose fianco a fianco, dal supporto reciproco e dagli stimoli positivi l’uno verso l’altro. Adesso ho capito la bellezza del sentirmi davvero parte di un gruppo, dell’avere persone di cui fidarmi e del prendere in mano la mia vita.

Andrea Cuminatto

Giorgia Benusiglio: a un passo dalla morte per mezza pasticca

Io presento Giorgia Benusiglio al teatro Odeon di Firenze, durante l'incontro con i ragazzi delle scuole superiori per la Giornata per la Vita (6 gennaio 2016)
Io presento Giorgia Benusiglio al teatro Odeon di Firenze, durante l’incontro con i ragazzi delle scuole superiori per la Giornata per la Vita (06/02/2016)

Giorgia è una ragazza apparentemente normale, a vederla per strada non diresti che ha visto la morte in faccia. Eppure nel 1999, a 17 anni, ha rischiato di metter fine alla sua vita per un gesto fatto senza pensare. Come tante altre ragazze e tanti altri ragazzi della stessa età, si è lasciata trascinare dal momento, prendendo mezza pasticca di ecstasy. Questa le ha causato un’epatite tossica fulminante, che ha richiesto un immediato trapianto di fegato.

Ora, dopo 16 anni, Giorgia Benusiglio viaggia per l’Italia raccontando ai ragazzi la propria storia perché, spiega, io non ero consapevole della possibilità di morire prendendo un’ecstasy. Tutti sanno che le droghe fanno male, ma anche fumare fa male: sul pacchetto di sigarette c’è scritto che uccide, ma non pensi che fumando una sigaretta vai all’aldilà. Il padre di Giorgia, prendendo i vestiti che aveva quando è finita in ospedale, ha trovato nel suo giubbino un depliant del Ministero degli Affari Sociali, con testi approvati dal Ministero della Salute: c’era scritto che le sostanze stupefacenti fanno male, ma se proprio volevi provarle ti davano consigli per limitare i danni. “Prendila divisa a metà a distanza di un’ora, bevi tanta acqua, non mischiare con alcol ecc”: questo ciò che consigliava l’opuscolo. Ed è comprensibile che degli adolescenti, già di per sé tentati all’uso di MDMA in discoteca dai coetanei, leggendo un depliant del genere approvato dal Ministero della Salute pensino “se provo una volta, seguendo queste indicazioni, non mi succede nulla”. Anche grazie all’impegno di Giorgia e suo padre, oggi questi opuscoli non sono più distribuiti: servivano a limitare i danni in ambienti in cui i giovani facevano già uso di droghe, ma finivano per fare danni ulteriori in altri ambienti.

Giorgia Benusiglio al Teatro Odeon per la Giornata per la Vita (06/02/2016)
Giorgia Benusiglio al Teatro Odeon per la Giornata per la Vita (06/02/2016)

Un aspetto importante della storia di Giorgia è il suo rapporto con Alessandra, la donatrice del suo fegato. Alessandra in quei giorni moriva a causa di un incidente stradale. Adesso mi sento Giorgia ed Alessandra insieme – racconta – perché un pezzo di lei è sempre con me. Di solito un trapianto, per chi è malato e aspetta un organo da anni, è la cosa più bella del mondo. Io però ho anche i sensi di colpa perché quel fegato poteva salvare una persona malata, invece ha salvato me per la cavolata che ho fatto.

La scelta di dare ai giovani un messaggio è arrivata per la lezione imparata da quanto accaduto, ma anche da quanto vive ancora ogni giorno: ho letto su internet che gli organi trapiantati possono durare solo un tot di anni e mi sono chiesta “Ma allora ho una scadenza?”. I dottori mi hanno spiegato che non avendo una malattia che fa regredire anche il nuovo organo, non ho questo problema, ma allo stesso tempo devo vivere con dei farmaci che mi tengono il sistema immunitario basso per non far rigettare il fegato dal mio stesso organismo. Rivolgendosi ai ragazzi, chiede: sareste in grado di vivere grazie a dei farmaci? Ma anche: Sareste in grado di passare 12 ore di intervento, di arrivare a pesare 27 kg, di vivere con una cicatrice che vi solca il busto? E così via, per far rendere conto di cosa sia la vita “dopo”, sempre se si è tanto fortunati da sopravvivere come lei. L’esperienza di Giorgia, raccontata direttamente e con molta apertura anche alle domande più scomode da parte dei ragazzi, è una valida alternativa a quell’opuscolo del Governo, per fare davvero prevenzione attraverso una corretta informazione su questo tema e su tutto ciò che ci ruota intorno.

Andrea Cuminatto

Viaggio di un piccolo principe

Presentazione Viaggio di un Piccolo PrincipeOggi parlo di uno spettacolo ispirato ad uno dei libri più famosi della letteratura francese: Il piccolo principe di Antoine de Saint Exupéry. Uno spettacolo che non narra i fatti del libro, ma ne interpreta le filosofie. Uno spettacolo che nasconde esperienze di vita intense e propone uno stile di vita intenso. Uno spettacolo che spinge ad andare oltre le apparenze.

Si intitola “Viaggio di un piccolo principe” e sono i Synthesis a metterlo in scena, in una magica fusione di musica, ballo, lettura e disegno. Mario Costanzi ha scoperto il Piccolo Principe tanti anni fa, nella cittadina toscana di Loppiano, grazie ad una ragazza francese, Margot. Ha iniziato a scrivere testi di canzoni ispirate al racconto, senza capire inizialmente di cosa trattasse. Ci sono voluti anni per raggiungere la consapevolezza della grandezza di quel racconto. Anni durante i quali ha scoperto fino in fondo un altro libro fondamentale per la sua vita: il Vangelo.

Una chitarra, un microfono, e le pagine prendono vita nella voce di Mario e di Francesco, che con lui ha intrapreso questo viaggio musicale. Con gli acquerelli di Laura, le note si colorano mentre escono dagli strumenti, rendendo vista ed udito un senso unico. I passi di danza creativa, i brani letti fra le canzoni, e prende vita uno show che non è solo spettacolo, ma è  vita.

Per tanti un libro per bambini, Il piccolo principe è qui compreso nel suo significato più profondo, che l’essenziale è davvero invisibile agli occhi. E con gli esperimenti delle bimbe di una scuola empolese, i grandi si rendono conto che nella nostra quotidianità manca la fantasia nel vedere le cose, che il gioco della vita è restare sempre, almeno un poco, bambini.

Andrea Cuminatto

Il ponte del diavolo: inquietanti leggende in Toscana

Ponte del Diavolo 1Il ponte della Maddalena a Borgo a Mozzano (LU) è comunemente conosciuto come Ponte del Diavolo. Sono vari, sparsi per il mondo, gli attraversamenti con questa denominazione, solitamente dovuta alla posizione pericolosa in cui sono costruiti.

Ma non è affatto pericoloso raggiungere l’altra sponda del fiume Serchio su queste arcate medievali. Realizzato nel 1300, il famoso ponte della Garfagnana deve la diabolica accezione ad una leggenda su come venne costruito. Importante in quanto passaggio della via Francigena, doveva essere edificato in fretta. Il capomastro a cui era stata affidata la difficile opera, resosi ben presto conto che non avrebbe potuto rispettare la scadenza, scese a patti con il Diavolo: quest’ultimo avrebbe consentito di completare l’opera in una sola notte, in cambio della prima anima che avesse attraversato il ponte. Il giorno successivo, a lavori finiti, l’operaio si sentì pervadere dal rimorso per ciò che aveva fatto ed andò a confessarsi. Il parroco, ascoltata la storia, suggerì un inganno per il Demonio. Fecero attraversare il ponte da un cane, così nessuna anima umana venne rapita. Il Diavolo, infuriato, prese il cane e si gettò nel fiume. Da allora, pare che nelle sere autunnali il fantasma bianchissimo pastore maremmano sia solito passeggiare sulle antiche pietre del ponte.

Ponte del Diavolo 2Oltre a strappare un sorriso – o magari un brivido se si ascolta la storia al crepuscolo con la nebbia che sfiora le acque del Serchio – la leggenda ricorda che l’uomo è in grado di compiere opere maestose per superare gli ostacoli che trova sulla propria strada. E se a volte davvero sembra impensabile aver realizzato qualcosa di unico – tanto da attribuirlo ad opera diabolica – pensiamo che se il Diavolo si fa ingannare tanto facilmente, magari possiamo far cose grandi anche meglio di lui.

Andrea Cuminatto

Come sopravvivere in Austria in un viaggio all’insegna della sfiga

Quando programmi qualche giorno in Austria  i primi di gennaio, immagini mercatini di Natale che colorano i borghi, i tetti ricoperti di neve, l’odore di cannella e chiodi di garofano che aromatizzano il vin brulé bevuto fra storie e risate. C’è però da mettere in conto che a volte, dopo tanti viaggi, capita quello in cui la parola d’ordine è “sfiga”.

SFIGA N.1: IL TRAFFICO. Il viaggio sembrava iniziare bene quando, da Firenze, partiamo con 3 ragazzi che ci hanno chiesto un passaggio tramite Blablacar. Contenti per riuscire a recuperare parte delle spese di viaggio ed avere al contempo una compagnia simpatica fino a Bolzano, partiamo carichi d’entusiasmo e procediamo tranquilli fino a Modena, dove una coda interminabile blocca l’autostrada. Sotto alla prima neve d’inverno, che decide di cadere proprio ora con fiocchi grandi quanto albicocche, procediamo a passo di tartaruga in letargo, arrivando a Bolzano con 2h30m di ritardo. Ma che sarà mai qualche ora persa, quando abbiamo davanti 4 giorni di viaggio!

MeranoSFIGA N.2: LA MACCHINA. Una sosta a Merano, passeggiando lungo l’Adige e respirando già la magia dell’inverno che quest’anno a Firenze sembra non arrivare mai, e possiamo ripartire. Con un Tedesco davanti che frena in salita, arriviamo al lago di Resia che il sole è già tramontato. Mentre cerchiamo la strada per scendere famoso campanile che spunta dall’acqua (sotto al lago artificiale c’è un paesino sommerso), la frizione dell’auto decide di abbandonarci. Quando la sfiga ti colpisce non ti si rompe un tergicristallo, non ti fuma il radiatore, non si buca una gomma: quando la sfiga vuole colpirti spacca di netto la frizione, un mese dopo il termine della garanzia dell’auto, lasciando a bocca aperta anche il più accanito meccanico altoatesino. Così, chiamato un carrattrezzi che si porta via la macchina, l’unica soluzione per andare avanti è prendere un taxi fino a Telfs, la cittadina vicino a Innsbruck in cui alloggiamo. Abbiamo pensato di rinunciare al viaggio, di tornare a casa, ma la signora che ci affitta l’appartamento, mossa a compassione, ascolta la nostra disgrazia e ci offre la cena. Col pensiero che ci sarà sempre qualcuno disposto ad aiutarci, non molliamo e proseguiamo.

InnsbruckSFIGA N.3: INNSBRUCK (La città delle piccole e grandi sfighe). La mattina prendiamo un treno per il capoluogo tirolese, ancora indecisi su cosa fare. Abbiamo prenotato due notti a Salisburgo e dobbiamo trovare il modo di arrivarci. Prima di tutto proviamo a lasciare i trolley nelle cassette di sicurezza della stazione ma sono tutte, proprio tutte, occupate. Quindi giriamo la città con i bagagli e questo non ce la fa certo godere. Intanto, visto che il treno per Salisburgo costa oltre 45€ a testa, cerchiamo un passaggio su Blablacar. I tre passaggi possibili risultano tutti pieni. Pensiamo così di noleggiare un’auto ma, ovviamente, è domenica e quindi gli unici autonoleggi aperti sono all’aeroporto. Ci compriamo il necessario per i panini e ci avviamo un po’ abbattuti alla fermata del bus per l’aeroporto, provando un certo disgusto per questa città che non siamo riusciti ad apprezzare. Infiliamo le monete nella macchinetta dei biglietti e, giusto il tempo di prenderli, arriva un sms: si sono liberati due posti per un passaggio. Siamo ormai consapevoli di viaggiare con la nuvoletta di Fantozzi sulla testa (anche se spruzza neve) e pranziamo alla fermata dell’autobus controllando la gente che deve prendere l’autobus. Riusciamo per fortuna a rivendere i biglietti ad una famiglia di Italiani. Partiamo con una giovane coppia alla volta di Salisburgo, contenti, per lo meno, di aver risparmiato sul tragitto e di poter giungere alla nostra prossima tappa.

SalisburgoSalisburgo 2SFIGA N.4: L’AUTOBUS. Quella passata a Salisburgo è una giornata positiva. Alloggiamo in una bella casetta fuori città, ben collegata con l’autobus al centro. Dal mattino visitiamo con entusiasmo la città di Mozart, resa magica dalla coltre di neve caduta proprio il giorno precedente. Riusciamo finalmente a trovare la gioia della vacanza, perdendoci fra le stradine illuminate, assaggiando prodotti tipici e scaldandoci con una tazza di vin brulé a metà giornata. Vediamo la cattedrale e giriamo attorno al castello, scattiamo foto dall’alto della collina e passeggiamo lungo il fiume. La sera scopriamo una sorta di enorme taverna in cui ceniamo con stinco di maiale e birra, sentendoci a pieno integrati nella cultura locale. Andiamo a prendere l’autobus di ritorno con largo anticipo, pregustando una serata tranquilla e rilassante. La giornata era andata troppo bene: l’autobus passa dal lato opposto della strada. Scopriamo che sulla fermata, in tedesco, c’è scritto che la fermata è stata spostata sul lato opposto. Quello successivo è dopo 1h30m.

UN PO’ DI FORTUNA. Tornare a casa con i mezzi pubblici avrebbe un costo esorbitante. Per fortuna troviamo un passaggio al mattino con Blablacar. Un signore molto gentile che viaggia con la sua cagnolina Carlotta e ci porta fino a Bologna, da dove abbiamo un altro passaggio fino a casa. Durante il tragitto, carica una coppia di autostoppisti, lei Tedesca e lui Argentino. Il viaggio si trasforma in uno scambio di storie e scoperta di culture, parliamo in tre lingue diverse e ridiamo con la stessa allegria. Arriviamo a casa stanchi, consapevoli che non è stata la vacanza sognata da tempo: non abbiamo visto i posti che ci eravamo prefissati, non abbiamo avuto il relax che attendevamo. Ma abbiamo conosciuto persone e cose nuove, e soprattutto abbiamo trovato delle difficoltà e le abbiamo sconfitte insieme, comprendendo che ogni ostacolo superato mano nella mano è un nodo più forte che si forma nel nostro legame.

Andrea Cuminatto

Foto di Eleonora Burroni

Dal Mali alla Libia, per una nuova vita a Firenze.

 

Sekou racconta la sua storia durante la prima serata del progetto "DiversaMente" a Campi Bisenzio - 25/10/2015
Sekou racconta la sua storia durante la prima serata del progetto “DiversaMente” a Campi Bisenzio – 25/10/2015

Mi chiamo Sekou, ho 20 anni e provengo dal Mali, più precisamente da Djenné. Abito in Piazza Ballerini a Campi Bisenzio (Firenze) insieme ad altre 12 persone, anche loro richiedenti asilo. Il giovane africano è uno dei ragazzi ospitati nel comune della provincia fiorentina grazie all’impegno del Forum Nuovi Cittadini. Sta imparando a poco a poco l’italiano per provare ad integrarsi nella nostra società.

Sono il primo di tre figli – racconta – ho un fratello ed una sorella. Mio padre fa il pescatore ma avendo altre due famiglie ci dava solo il necessario per mangiare. Presto ho imparato anch’io a pescare e contribuivo alla economia familiare.

Sekou sta aspettando di essere ascoltato dalla commissione che deciderà o meno di confermare la sua richiesta d’asilo. Nel raccontare il suo viaggio verso l’Italia spiega: Dopo tre mesi di permanenza in Libia, ci hanno messo dentro un gommone, me ed altri 106 maschi, di diverse nazionalità. Ma prima ci hanno tolto tutti i cellulari e schede telefoniche. Il viaggio è durato due giorni duranti i quali abbiamo avuto tanta paura, abbiamo pianto tanto. Ci avevano dato una bussola e dovevamo stare attenti a fare restare la freccia sempre al nord. Durante il viaggio è piovuto tanto e dovevamo buttare fuori l’acqua con i pochi contenitori che avevamo.

Non dimenticherò mai il viaggio – continua il giovane con un po’ di difficoltà ad esprimere ciò che prova – me lo ricordo sempre, sento ancora le urla di disperazione. Sono stati due giorni in cui ho avuto la paura fissa di morire, pensavo a mia madre che non sapeva dov’ero, non sapeva che mi ero imbarcato. Il viaggio è finito quando ci ha avvistato una nave della marina militare italiana e ci hanno soccorso.

Arrivato sulle coste siciliane ormai quasi un anno fa, il 26 dicembre 2014, il giorno successivo è stato trasferito a Lastra a Signa. A febbraio è stato poi trasferito a Campi Bisenzio dove, racconta, Mi trovo bene, vedo le persone, posso parlare con altri. I primi giorni avevo paura perché non capivo per niente la lingua, uscivo solo in piazza, senza allontanarmi tanto, guardavo le persone; ma grazie all’intervento dell’associazione “Nuovi Cittadini” l’anno scorso ho fatto il primo livello della lingua italiana e quest’anno inizierò a fare la scuola media. Sempre grazie all’associazione, abbiamo fatto il codice fiscale e libretto sanitario. Se abbiamo problemi di salute andiamo all’ambulatorio della nostra dottoressa. Mi manca sempre mia madre, per chiamarla devo comprare una scheda telefonica perché lei non ha internet, la chiamo due volte a settimana. Invece con gli amici riesco a comunicare tramite internet, usando wi-fi in piazza.

In casa siamo in tredici, undici pakistani e due del Mali. Ho legato tanto con Sibiri, anche lui maliano, ma l’ho conosciuto solo sul gommone, non prima… solo con lui parlo bambara, con gli altri parlo un po’ di italiano, un po’ di libanese, insomma in qualche modo ci capiamo. Noi del Mali mangiamo più riso a differenza dei pakistani che mangiano tutti i giorni piadine e sughi vari, perciò non sempre si mangia insieme. Io ero abituato a mangiare il pesce due tre volte il giorno, adesso non lo posso più mangiare. Non abbiamo lavatrice, quindi laviamo i nostri vestiti a mano a turno. Abbiamo il turno anche per le pulizie di casa. La spesa per cucinare e le cose di igiene personale li facciamo da soli.

I giorni di preghiera vado in Moschea a Campi, dietro l’Esselunga, poi vado a scuola, delle volte aiuto Sofia – del Forum Nuovi Cittadini – nelle sue varie attività. È capitato che qualche volta mi hanno chiamato a lavorare facendo volantinaggio, ma non è un lavoro fisso. Io e gli altri ragazzi siamo in attesa di essere chiamati per fare volontariato civico e nelle diverse associazioni campigiane che hanno già manifestato interesse.

Andrea Cuminatto

Dalla Nigeria in Italia, per una guerra non loro. Quando si è costretti ad emigrare.

E. sembra un giovane uomo sulla trentina. Ma ha appena 20 anni. È cresciuto in Nigeria, con una situazione non facile della madre malata, lavorando in una coltivazione di ananas. La Libia, per lui, è stata inizialmente un’opportunità di lavoro. Un compatriota lo ha portato a lavorare in una fattoria libica, dove aveva prospettive di un buon guadagno in una zona rurale tranquilla del paese.

Lavoravo al ristorante, e durante il Ramadan in un autolavaggio. Dopo 3 mesi mi hanno dato 700 dinari ed ero contento. Ad un certo punto hanno smesso di pagarmi. E il figlio del proprietario mi rubava i soldi. Ho iniziato ad andare a giro con i soldi addosso, perché non mi fidavo più a lasciarli in casa, volevo trovare un altro lavoro. Un giorno, tornando alla fattoria, il proprietario ha iniziato ad urlarmi in arabo: non capivo cosa diceva. Ho provato a chiedere scusa, se avevo offeso in qualche modo, ma non mi hanno ascoltato. Suo figlio è uscito con una pistola e ho avuto paura, sono andato via.

Ho trovato un altro Libico che mi ha accolto, ha accettato i miei soldi dicendomi che noi stranieri non eravamo sicuri e che poteva aiutarmi. Mi ha portato di notte in un luogo in cui molti altri erano radunati vicino al mare. C’erano due barche, con le quali ci hanno portati ad un’imbarcazione più grande, ci hanno spinti dentro, sottocoperta, a forza di bastonate. Chiusi in un luogo soffocante contro la nostra volontà. Due giorni dopo mi sono ritrovato in Sicilia.

Villa Pepi 6Quella di M. è una storia simile. Anche lui dalla Nigeria è andato in Libia. Alla domanda perché?, risponde Non avevo un lavoro e i miei genitori vivevano molto lontano. La Nigeria è un Paese benedetto da Dio: abbiamo tante risorse e potremmo vivere benissimo. Il problema è che i pochi che sono al potere non fanno l’interesse delle persone comuni. Avevo 24 anni e vivevo da solo, sono partito per cercare nuove opportunità di lavoro. Ho saputo che c’era la guerra solo quando mi ci sono trovato in mezzo. In città dietro ad ogni angolo c’era qualcuno che sparava. Ogni giorno vedevo morire delle persone. Anche se trovavo dei lavoretti, gli arabi non sempre mi pagavano e se protestavo mi picchiavano.

Avevo sentito parlare dell’Italia come di un luogo sicuro, dove c’è pace e non rischi di essere ucciso. Per questo ho cercato di raggiungerla. Ma ho avuto molta paura. Ho pregato Dio tutto il tempo mentre attraversavamo il Mediterraneo. Non avevo mai visto così tanta acqua, così scura, così terrificante. Credevo che sarei morto.

Adesso sorride M., è sopravvissuto e vuole andare avanti. Voglio imparare l’italiano, sto seguendo il corso anche se è difficile. Voglio cercare un lavoro. Mi piacerebbe che qualcuno di Firenze mi facesse vedere la città, vorrei conoscerne la storia e riuscire ad integrarmi.

Andrea Cuminatto

Foto di Anna Zucconi

“Non avevo mai visto il mare”. Attraverso il Mediterraneo per scampare alla paura

O. ha 22 anni, ma ne dimostra di più. Viene dalla Nigeria, un paese la cui storia politica è segnata da irregolarità e violenza. Ha 6 sorelle, ma non sa se suo padre è vivo. Hanno sparato in casa – racconta a fatica in un inglese stentato, con la voce rotta dal dolore – ed io ho sentito gli spari da fuori e sono scappato. Mio padre era dentro: ancora non sono riuscito a sapere se è rimasto ferito o ucciso.

Villa Pepi 1Quella di O. è una storia di gioventù incisa dalla paura. Lo spostamento da una Nigeria fatta di difficoltà ma anche di valori e punti fermi – come l’appuntamento domenicale alla Redeemed Church of God – ad una Libia in guerra, è stato uno dei grandi traumi del giovane. Ci è andato per scappare dalle difficoltà, per allontanarsi dalla paura, ma l’ha vista soltanto crescere.

Ho passato 6 mesi in Libia, a Tripoli. Lì però non mi sentivo libero. Ad un certo punto non si distingueva più la polizia dalla gente comune, tutti erano armati, avevo paura di tutti. Non riuscivo più a lavorare e avevo paura anche a camminare per strada. Un giorno ho visto un ragazzino che giocava con una pistola: gli è partito un colpo per sbaglio ed ha ucciso una donna incinta.

L’altro grande trauma di O. è stato il mare. Non avevo mai visto il mare. Bagnarsi nell’acqua salata è strano, senti la pelle tirare. Ma dovevo scappare da quel posto. Dalla Libia a Lampedusa è stato un viaggio spaventoso, quando ho visto i bianchi avvicinarsi alla nostra barca, mi è sembrato di tornare in vita. Tra i ricordi del mare che ho, c’è il blu scuro della notte che fa paura e l’azzurro del mattino che rasserena, che dà tranquillità, che fa sperare.

Andrea Cuminatto

Foto di Anna Zucconi

Qui non si sentono spari. L’avventura di un immigrato.

Villa Pepi 2J. è ancora un ragazzo, ha appena compiuto 18 anni ma ha visto cose che nessun uomo dovrebbe vedere. È nato in un piccolo villaggio del Gambia, dove ha passato l’infanzia con i nonni, perché la madre è morta quand’era bambino e suo padre 3 anni fa. E’ uno dei tanti arrivati l’estate scorsa in Italia, in fin di vita dopo aver attraversato il Mediterraneo su un gommone.

Mio padre – racconta – la notte prima di morire ha chiamato mio fratello maggiore e me e ci ha detto: ‘voi mangiate tutti i giorni, ma non sapete da dove arriva il cibo, come è possibile che tutti i giorni ci sia da mangiare?’ Non avevamo soldi e non potevo pagare la retta della scuola. Ho chiesto ai miei zii, che però non avevano denaro e volevano che lasciassi la scuola. Io volevo studiare.

Così il giovane ha deciso di andare via: prima in Senegal e poi in Mali. Ho chiamato mio fratello perché avevo bisogno di soldi, ma sua moglie era malata e non poteva mandarmi niente. Ho lavorato come manovale e mi sono pagato il viaggio per il Niger e poi per la Libia. In Libia ho trovato un lavoro e guadagnato i miei primi 900 dinari, ma un giorno delle persone armate mi hanno minacciato: se non gli davo i soldi mi avrebbero ucciso. Avevo nascosto i soldi nei calzini. Il giorno dopo li hanno trovati e si sono insospettiti. Mi hanno tenuto prigioniero per sei mesi con altre persone di diversi paesi. Sparavano a chi non faceva ciò che dicevano.

Ci hanno detto che avremmo dovuto fare ciò che avrebbero chiesto e, prima ancora di spiegarci che cosa, avremmo dovuto dire sì o no. C’era molta gente che da Saba arrivava a Tripoli: mi hanno detto di arrestare alcune di queste persone e mi hanno messo un’arma in mano. Ho avuto paura. Sono riuscito a fuggire lontano. Ho trovato lavoro in un’altra zona, vicino al mare. Sulla riva ricordo una barca spaccata a metà.

Un giorno qualunque, d’improvviso, ho sentito attorno a me degli spari. Eravamo in tanti, circa 120 persone. Ci hanno rincorsi e hanno preso buona parte delle persone che erano con me. Siamo rimasti in 75. Sono tornato di nuovo sul mare. Avevano riunito un centinaio di persone e siamo partiti su una barca, verso le quattro del mattino. Il motore si è fermato poco dopo e siamo stati in balia delle onde e delle correnti fino a verso le sei del mattino. La corrente ci portava indietro.

Avevamo un contatto telefonico in Italia: ci ha risposto una donna e ci ha detto che dovevamo essere ancora in acque libiche e non avrebbe potuto fare niente per noi. Dopo un po’ di tempo, quella donna ci ha telefonato per avvisarci che c’era una nave grossa nei paraggi e che si sarebbe avvicinata a noi. Nella barca con me c’erano anche donne e bambini. Molti passeggeri della barca dove ero si sono messi a saltare e la situazione era molto pericolosa, perché rischiavamo di rovesciarci. Alcuni sono saltati in mare. Ne ho visti salvare tre, e gli altri sono morti. In tutto siamo stati in mare circa quattro giorni. Era il mese di giugno. La nave che ci ha salvati, ha fatto un’operazione di emergenza ma non ci poteva portare in nessun posto, così siamo stati trasferiti su una nave italiana che ci ha portati in Sicilia. Una delle cose che mi piace di più dell’Italia è che qui non si sentono spari.

Andrea Cuminatto

Foto di Anna Zucconi

Libertà di religione, libertà di vita

Villa Pepi 3Boubacar sorride. È felice di essere in Italia. Lo è soprattutto perché qui può essere libero di parlare, di leggere, di credere. Ha 22 anni ed è arrivato lo scorso settembre in Sicilia su un barcone carico di altri profughi. Adesso è a Firenze, a Villa Pepi, in attesa di sapere cosa ne sarà della sua vita. C’è chi è scappato per la guerra, chi per la fame: lui è scappato per la libertà.

Vengo dal Senegal – racconta – la mia famiglia è musulmana. Io avevo un amico cristiano, con cui parlavo di molte cose. Un giorno mi regalò una Bibbia. Io sono curioso: ero musulmano ma volevo saperne di più sulle altre religioni, così ho deciso di leggerla, un passo alla volta la sera prima di dormire.

Mia madre un giorno vide questo libro sul comodino e mi chiese perché lo avessi. ‘Voglio comprendere il Cristianesimo’ le risposi. Così un giorno, mentre ero a casa del mio amico, mia madre disse a mio padre ‘Bouba vuole diventare Cristiano, e sta bevendo vino, che non si può bere!’. Degli amici di mio padre vennero a prendermi: mio padre voleva farmi lapidare. Voleva uccidere suo figlio a colpi di pietra. Solo perché credeva che avessi abbandonato l’Islam, cosa che non era neanche vera. La famiglia cristiana del mio amico mi ha difeso, ma suo padre è morto per proteggermi. Ho compreso che il Cristianesimo è una religione di pace, che insegna ad aiutare gli altri, fino in fondo. Qui, in Italia, finalmente mi sento libero.

Andrea Cuminatto

Foto di Anna Zucconi

Dove finiscono dopo gli sbarchi? Visita ad una casa di accoglienza

Villa Pepi 8Entrare dal cancello di Villa Pepi non è un passo scontato. Ciò che si prova nel varcare la soglia di questa casa a pochi passi dall’ospedale Meyer di Firenze è un senso di disorientamento: non si capisce bene dove ci si trova. Pare che il mondo si sia riversato qui, incrociando culture e mixando lingue, idee, tradizioni.

Un sorriso, un cenno, un saluto. Un ragazzo ti dà la mano e ti dice “ciao”. È l’unica parola italiana che conosce, ma basta a far correre via l’ansia e a farti sentire a casa. Dopo pochi passi ci si sente già parte di questo mondo chiuso fra quattro mura, in cui 129 uomini sono stati accolti dallo scorso luglio dopo il loro, purtroppo, tragico arrivo in Italia. Accoglienza è una parola riduttiva per il ruolo che questo centro si trova a coprire: un letto a castello in camerata, tre pasti essenziali, persino l’aiuto con le pratiche per il permesso di soggiorno non sono tutto. Il vero valore di questo luogo è la speranza. Una speranza che si legge in occhi che hanno visto morte e paura, ma ora tornano a vedere uno spiraglio di futuro.

Villa Pepi 7Villa Pepi vuole essere questo faro di speranza nell’integrazione, attraverso corsi di lingua italiana, attività e lavori che permettano a questi uomini di conoscere la città e le persone che vi abitano, sostenendo la Firenze che li ospita. E così c’è chi si occupa della cucina della stessa struttura, chi va a fare servizio alla mensa Caritas in via Baracca, chi aiuta in traslochi e chi si è messo a liberare le strade dagli alberi caduti per il maltempo. C’è anche chi, con gli Angeli del Bello, ripulisce i giardini pubblici e tinteggia i muri della città.