Suor Lucia e il Baby Caritas Hospital di Betlemme

Suor Lucia MeyerSuor Lucia, francescana elisabettina, è una delle 4 sorelle – oltre che delle uniche 4 straniere – a lavorare nell’ospedale pediatrico palestinese Caritas Baby Hospital. Ascoltare la sua testimonianza all’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze è stato toccante e al contempo stimolante per i medici presenti in sala. Per me è un sogno essere qui – ha esordito emozionata la suora vicentina – in un ospedale di cui ho sentito parlar bene a livello mondiale. Ero infermiera già prima di farmi suora, ho fatto 4 anni di servizio con malati di AIDS a Padova e tirocinio di patologia prenatale. Sono arrivata a Betlemme 13 anni fa, dopo l’assedio, quando era quasi completamente distrutta.

Quello che ha scoperto come propria missione la suora infermiera è dare speranza alle persone che incontra nel quotidiano. Il nostro fondatore – ha continuato – ci ha dato due obiettivi primari: l’assistenza ai bambini di qualsiasi provenienza e religione, dalla prematurità (bambini nati prima del tempo) ai 17 anni di età, e allo stesso tempo l’aiuto e l’accompagnamento alle madri. Abbiamo compreso come sia fondamentale la presenza delle madri all’interno dell’ospedale, per i bambini e per il percorso familiare.

L’ospedale ha 230 dipendenti, quasi tutti arabi, per metà cristiani e metà musulmani. Suor Lucia spiega come in Palestina non ci sia una specializzazione medica in Pediatria, per cui gli aspiranti medici pediatri devono andare a studiare in Giordania, oppure in Europa o America. E poi non è detto che tornino, anche perché per chi torna le limitazioni governative sono tante. La difficoltà più grande della loro zona è dovuta ai muri di sicurezza israeliani, che non separano solo i confini di Stato, ma generano una vera e propria ghettizzazione dei villaggi, impedendo alla gente di muoversi liberamente all’interno della stessa Palestina. Che cosa c’entra questo con la sanità? Si chiede suor Lucia. Innanzitutto, l’occupazione delle terre e la necessità culturale di vivere in clan, fa sì che la gente costruisca in altezza anziché in larghezza, con edifici composti da spazi stretti e poco ventilati, quindi condizioni igieniche basse. Il controllo da parte di Israele dell’85% delle risorse idriche, non migliora la situazione. Per la popolazione araba, sposarsi e dare continuità generazionale al clan è culturalmente l’obiettivo primario: se gli impedisco di muoversi e avere contatti con gli altri clan, aumento le unioni fra consanguinei, il che dà vita a numerose patologie congenite.

Suor Lucia Meyer 2Dopo aver parlato della situazione in cui l’ospedale si trova, suor Lucia ha messo in luce alcune delle maggiori difficoltà che si trovano ad affrontare per curare i piccoli pazienti. Quando non possiamo curare qualche patologia mandiamo i bambini in Israele. Perché? Perché da Betlemme a Gerusalemme sono solo 8km, perché lì hanno tutte le specializzazioni, perché la guerra è a livello politico, di gerarchie, ma quando si tratta di persone, di professionisti, salvare la vita ai bambini viene prima della loro provenienza. Nonostante il gemellaggio che abbiamo, però, non è tutto semplice. In Israele se è un bambino è più vicino alla morte che alla vita, non viene accolto nelle strutture sanitarie. Queste sono private e i Palestinesi, stranieri per Israele, non hanno assicurazioni sanitarie. Una difficoltà ulteriore è data dal fatto che quando sorgono problemi con una persona, viene bollato tutto il suo clan, quindi un bambino potrebbe essere discriminato per questo. Inoltre non è scontato gestire la coincidenza delle ambulanze dei due ‘Stati’, fino al check-point di filo spinato ed oltre confine.

Foto e video mostrati da suor Lucia hanno toccato nel segno più di tante parole. Il nuovo “gemello” palestinese dell’ospedale fiorentino è un luogo in cui l’amore per i bambini è tanto forte da superare ogni ostacolo.

Andrea Cuminatto

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