E. sembra un giovane uomo sulla trentina. Ma ha appena 20 anni. È cresciuto in Nigeria, con una situazione non facile della madre malata, lavorando in una coltivazione di ananas. La Libia, per lui, è stata inizialmente un’opportunità di lavoro. Un compatriota lo ha portato a lavorare in una fattoria libica, dove aveva prospettive di un buon guadagno in una zona rurale tranquilla del paese.
Lavoravo al ristorante, e durante il Ramadan in un autolavaggio. Dopo 3 mesi mi hanno dato 700 dinari ed ero contento. Ad un certo punto hanno smesso di pagarmi. E il figlio del proprietario mi rubava i soldi. Ho iniziato ad andare a giro con i soldi addosso, perché non mi fidavo più a lasciarli in casa, volevo trovare un altro lavoro. Un giorno, tornando alla fattoria, il proprietario ha iniziato ad urlarmi in arabo: non capivo cosa diceva. Ho provato a chiedere scusa, se avevo offeso in qualche modo, ma non mi hanno ascoltato. Suo figlio è uscito con una pistola e ho avuto paura, sono andato via.
Ho trovato un altro Libico che mi ha accolto, ha accettato i miei soldi dicendomi che noi stranieri non eravamo sicuri e che poteva aiutarmi. Mi ha portato di notte in un luogo in cui molti altri erano radunati vicino al mare. C’erano due barche, con le quali ci hanno portati ad un’imbarcazione più grande, ci hanno spinti dentro, sottocoperta, a forza di bastonate. Chiusi in un luogo soffocante contro la nostra volontà. Due giorni dopo mi sono ritrovato in Sicilia.
Quella di M. è una storia simile. Anche lui dalla Nigeria è andato in Libia. Alla domanda perché?, risponde Non avevo un lavoro e i miei genitori vivevano molto lontano. La Nigeria è un Paese benedetto da Dio: abbiamo tante risorse e potremmo vivere benissimo. Il problema è che i pochi che sono al potere non fanno l’interesse delle persone comuni. Avevo 24 anni e vivevo da solo, sono partito per cercare nuove opportunità di lavoro. Ho saputo che c’era la guerra solo quando mi ci sono trovato in mezzo. In città dietro ad ogni angolo c’era qualcuno che sparava. Ogni giorno vedevo morire delle persone. Anche se trovavo dei lavoretti, gli arabi non sempre mi pagavano e se protestavo mi picchiavano.
Avevo sentito parlare dell’Italia come di un luogo sicuro, dove c’è pace e non rischi di essere ucciso. Per questo ho cercato di raggiungerla. Ma ho avuto molta paura. Ho pregato Dio tutto il tempo mentre attraversavamo il Mediterraneo. Non avevo mai visto così tanta acqua, così scura, così terrificante. Credevo che sarei morto.
Adesso sorride M., è sopravvissuto e vuole andare avanti. Voglio imparare l’italiano, sto seguendo il corso anche se è difficile. Voglio cercare un lavoro. Mi piacerebbe che qualcuno di Firenze mi facesse vedere la città, vorrei conoscerne la storia e riuscire ad integrarmi.
Andrea Cuminatto
Foto di Anna Zucconi