J. è ancora un ragazzo, ha appena compiuto 18 anni ma ha visto cose che nessun uomo dovrebbe vedere. È nato in un piccolo villaggio del Gambia, dove ha passato l’infanzia con i nonni, perché la madre è morta quand’era bambino e suo padre 3 anni fa. E’ uno dei tanti arrivati l’estate scorsa in Italia, in fin di vita dopo aver attraversato il Mediterraneo su un gommone.
Mio padre – racconta – la notte prima di morire ha chiamato mio fratello maggiore e me e ci ha detto: ‘voi mangiate tutti i giorni, ma non sapete da dove arriva il cibo, come è possibile che tutti i giorni ci sia da mangiare?’ Non avevamo soldi e non potevo pagare la retta della scuola. Ho chiesto ai miei zii, che però non avevano denaro e volevano che lasciassi la scuola. Io volevo studiare.
Così il giovane ha deciso di andare via: prima in Senegal e poi in Mali. Ho chiamato mio fratello perché avevo bisogno di soldi, ma sua moglie era malata e non poteva mandarmi niente. Ho lavorato come manovale e mi sono pagato il viaggio per il Niger e poi per la Libia. In Libia ho trovato un lavoro e guadagnato i miei primi 900 dinari, ma un giorno delle persone armate mi hanno minacciato: se non gli davo i soldi mi avrebbero ucciso. Avevo nascosto i soldi nei calzini. Il giorno dopo li hanno trovati e si sono insospettiti. Mi hanno tenuto prigioniero per sei mesi con altre persone di diversi paesi. Sparavano a chi non faceva ciò che dicevano.
Ci hanno detto che avremmo dovuto fare ciò che avrebbero chiesto e, prima ancora di spiegarci che cosa, avremmo dovuto dire sì o no. C’era molta gente che da Saba arrivava a Tripoli: mi hanno detto di arrestare alcune di queste persone e mi hanno messo un’arma in mano. Ho avuto paura. Sono riuscito a fuggire lontano. Ho trovato lavoro in un’altra zona, vicino al mare. Sulla riva ricordo una barca spaccata a metà.
Un giorno qualunque, d’improvviso, ho sentito attorno a me degli spari. Eravamo in tanti, circa 120 persone. Ci hanno rincorsi e hanno preso buona parte delle persone che erano con me. Siamo rimasti in 75. Sono tornato di nuovo sul mare. Avevano riunito un centinaio di persone e siamo partiti su una barca, verso le quattro del mattino. Il motore si è fermato poco dopo e siamo stati in balia delle onde e delle correnti fino a verso le sei del mattino. La corrente ci portava indietro.
Avevamo un contatto telefonico in Italia: ci ha risposto una donna e ci ha detto che dovevamo essere ancora in acque libiche e non avrebbe potuto fare niente per noi. Dopo un po’ di tempo, quella donna ci ha telefonato per avvisarci che c’era una nave grossa nei paraggi e che si sarebbe avvicinata a noi. Nella barca con me c’erano anche donne e bambini. Molti passeggeri della barca dove ero si sono messi a saltare e la situazione era molto pericolosa, perché rischiavamo di rovesciarci. Alcuni sono saltati in mare. Ne ho visti salvare tre, e gli altri sono morti. In tutto siamo stati in mare circa quattro giorni. Era il mese di giugno. La nave che ci ha salvati, ha fatto un’operazione di emergenza ma non ci poteva portare in nessun posto, così siamo stati trasferiti su una nave italiana che ci ha portati in Sicilia. Una delle cose che mi piace di più dell’Italia è che qui non si sentono spari.
Andrea Cuminatto
Foto di Anna Zucconi