Maurizio appare tranquillo, sicuro di sé, a suo agio con tutti. Ha 50 anni e viene dalla provincia di Pavia, dove è nato e cresciuto. Adesso però lavora a Rimini per l’Associazione Papa Giovanni XXIII, che l’ha accompagnato in un percorso di riabilitazione da una dipendenza: il gioco d’azzardo.
La mia è la storia di un dipendente da gioco d’azzardo, nello specifico ippica, dai 23 ai 48 anni – racconta Maurizio a Firenze, in occasione della Giornata per la Vita 2016 – un quarto di secolo da giocatore. La mia dipendenza è iniziata quando, nel giro di un anno, mi sono venuti a mancare entrambi i genitori, 2 nonni, 2 zii e un cugino. Fino a quell’età la mia vita era stata pressoché perfetta: ero figlio unico e vivevo in un paesino in cui ci conoscevamo tutti, in una famiglia benestante e rispettata. Quando è morto mio padre e, poco dopo, mia madre, ho lasciato l’università per lavorare con una ditta di Milano. Mi mandavano a giro per l’Italia e quando tornavo a casa il fine settimana e aprivo la porta non trovavo più nessuno, era come avere un buco nero. Inconsciamente cercavo qualcosa di negativo che riempisse quel vuoto che si era creato.
All’epoca giocavo a basket e l’unica situazione in cui riuscivo a sfogarmi in modo positivo era lo sport. Come ho iniziato a giocare ai cavalli è stato un po’ un caso, probabilmente poteva essere l’alcol o qualcos’altro, ed è capitato quello in quel momento. Poi questo vuoto da riempire ha fatto sì che ci dedicassi sempre più tempo finché non ne sono diventato dipendente. Lavoravo tanto, ma con l’obiettivo sbagliato: facevo il rappresentante e se avevo 30 clienti da cui andare, andavo da 40, per avere più soldi da giocare il fine settimana. Non pensavo a cose da comprare o viaggi da fare: tutta la settimana calcolavo i soldi che guadagnavo da giocare quando rientravo. Quando entravo in agenzia, in quelle ore, ero in pace: tutti i problemi sparivano. Ma quando ne uscivo, i sensi di colpa si moltiplicavano. La reazione però non era “smetto”, ma “domani torno a rifarmi, sia economicamente che moralmente”.
Sono stati 25 anni di vita falsa: quando il denaro inizia a scarseggiare ti inventi di tutto e vivi nella menzogna. La cosa brutta di questo tipo di dipendenza è che non si riconosce dall’esterno. Un alcolista, un drogato, li riconosci: un giocatore d’azzardo è più subdolo se non lo vuoi accettare, se lo vuoi evitare o aiutare. Tu stesso non ti vedi diverso e non riesci ad ammettere di avere un problema. La mattina ti guardi, sei lo stesso, non riconosci di essere dipendente da qualcosa, e quindi non pensi di dover chiedere aiuto.
La scelta di cambiare è arrivata da amici e parenti: mi hanno detto che smettevano di sostenermi. Che se non accettavo di farmi aiutare seriamente, lasciavano che fossi solo e che diventassi un barbone. Lì ho deciso di chiamare la Papa Giovanni XXIII e di entrare in comunità. Il percorso in comunità è stato difficile e spesso volevo rinunciare e tornare a casa, ma ciò che mi ha fatto andare avanti è stato il pensiero “voglio di nuovo la possibilità di essere uomo“.
Maurizio non rimpiange tanto le perdite materiali. L’unica cosa materiale che davvero non vorrei aver perso – dice con nostalgia – è la casa dei miei genitori che ho venduto. Ciò che rimpiango davvero sono i 25 anni della mia vita, gli anni del vero Maurizio che non ci sono stati, quel Maurizio che c’era fino a 23 anni e che è riapparso solo a 48. Rimpiango tutto quello che la vita non potrà più darmi indietro rispetto agli affetti, ai parenti e agli amici, in questi 25 anni.
Andrea Cuminatto