Entrare dal cancello di Villa Pepi non è un passo scontato. Ciò che si prova nel varcare la soglia di questa casa a pochi passi dall’ospedale Meyer di Firenze è un senso di disorientamento: non si capisce bene dove ci si trova. Pare che il mondo si sia riversato qui, incrociando culture e mixando lingue, idee, tradizioni.
Un sorriso, un cenno, un saluto. Un ragazzo ti dà la mano e ti dice “ciao”. È l’unica parola italiana che conosce, ma basta a far correre via l’ansia e a farti sentire a casa. Dopo pochi passi ci si sente già parte di questo mondo chiuso fra quattro mura, in cui 129 uomini sono stati accolti dallo scorso luglio dopo il loro, purtroppo, tragico arrivo in Italia. Accoglienza è una parola riduttiva per il ruolo che questo centro si trova a coprire: un letto a castello in camerata, tre pasti essenziali, persino l’aiuto con le pratiche per il permesso di soggiorno non sono tutto. Il vero valore di questo luogo è la speranza. Una speranza che si legge in occhi che hanno visto morte e paura, ma ora tornano a vedere uno spiraglio di futuro.
Villa Pepi vuole essere questo faro di speranza nell’integrazione, attraverso corsi di lingua italiana, attività e lavori che permettano a questi uomini di conoscere la città e le persone che vi abitano, sostenendo la Firenze che li ospita. E così c’è chi si occupa della cucina della stessa struttura, chi va a fare servizio alla mensa Caritas in via Baracca, chi aiuta in traslochi e chi si è messo a liberare le strade dagli alberi caduti per il maltempo. C’è anche chi, con gli Angeli del Bello, ripulisce i giardini pubblici e tinteggia i muri della città.
Un paio di giovani giocano con una dama improvvisata su una tavola di legno: è impossibile pensare di batterli, a quanto pare in Africa le regole sono diverse da quelle Europee. Poco più in là, file di vestiti si asciugano fra gli ulivi, mentre qualcuno si arrangia a fare il bucato in un secchio. C’è l’essenziale, sicuramente non è un hotel a 5 stelle, come si dice in tanti servizi televisivi.
Il pranzo è un momento unico. La fila indiana per il pasto si trasforma pian piano in un caos positivo lungo le tavolate, dove si interagisce, si racconta, si pensa. Un Senegalese riempie il riso di paprika, un Bengalese tira fuori dalla tasca una manciata di peperoncini piccanti e li condivide con i propri connazionali. Ognuno riesce a portare a tavola un pizzico della propria cultura, per assaporare un leggero ricordo delle proprie origini. Un Indiano silenzioso ti offre parte del suo cibo, come si fa con un amico. L’amico al suo fianco ti racconta qualcosa del Senegal, mentre due Nigeriani vogliono sapere qualcosa dell’Italia. Nessuno, finora, gli ha mostrato Firenze su una cartina geografica. Ti viene offerta una pera in più perché, così, ci si assicura che resti altri cinque minuti a tavola: non è facile trovare Italiani disposti a parlare, a condividere qualche minuto per ascoltare e per spiegare qualcosa di questo strano Paese a forma di stivale.
Andrea Cuminatto
Foto di Anna Zucconi
CLICCA QUI per scaricare la rivista SOLIDARIETA’ CARITAS con il servizio completo
Carissimo, purtroppo non funziona il programma per caricare il file pdf del bimestrale nuovo. Appena risolvono il problema ti avviso !