


Tutta in salita. È questa la prima impressione su Porto. Sembra che le strade in piano qui non siano neanche concepite. L’ostello è una piacevole sorpresa: si chiama Porto Wine Hostel ed è, ovviamente, a tema Vinho do Porto. Ogni stanza ha il nome di una varietà di vino e i corridoi sono pieni di bottiglie alle pareti. In camera troviamo Stefàn, un tedesco che viaggia per 3 settimane nella penisola iberica, con solo uno zainetto che contiene un unico cambio di vestiti.
In una grande piazza (ovviamente in salita), un cartello appoggiato ad un trespolo per chitarre recita “Prendi la tua chitarra immaginaria”. Dietro ogni angolo appare una chiesetta decorata con gli azuleios, le tipiche mattonelle che colorano la città. Pasta con pomodoro e olive è il meglio che riusciamo a tirar fuori dagli scaffali di un minimarket: invitiamo Stefàn ad unirci a noi per cena. Nella semplicità di un piatto di pasta e un paio di birre, si rivela una delle cene più divertenti del viaggio. L’ingegnere tedesco fuori di testa ci offre un’ultrasottomarca di birra che però, essendo tedesca, ha comprato per patriottismo. Quando faccio per prendere la nostra SuperBock in frigo, ci dice di averla messa lui nel congelatore. Al mio “Sei un fottuto genio!” risponde “Hey, sono un ingegnere! Lì è più freddo: la metto lì!“.
Un giovane regista americano si unisce a tavola. Ci dice un paio di cose sul film a cui sta lavorando, ma non sembra molto interessante. La collaborazione spontanea nel lavare i piatti dimostra come stare in ostello aiuti la gente a conoscersi e convivere, condividendo la quotidianità. Dopo cena in un locale vicino c’è una serata del Couchsurfing. In un gruppo di conversazione con almeno 8 nazionalità diverse, il nostro nuovo compagno si dimostra ancora il più esilarante. “Aspetta aspetta aspetta… voi avete una regina?!? Da quando?!?“, detto a un’Olandese, è il top della conversazione.

La città è fantastica. Scale e viottoli si arrampicano sulla collina dalla foce del fiume Douro, affascinandomi ogni momento di più. Si respira nell’aria il sapore di antico, di tradizione, che si mescola all’odore delle sarde cotte in piccoli bracieri lungo il fiume, mettendomi molto più appetito degli schifosi biscotti che abbiamo comprato per colazione (che neanche i pesci a cui li abbiamo gettati hanno voluto mangiare). Saliamo sul più grande dei ponti che collegano le due parti della città. Il colosso d’acciaio su cui auto, treni e passanti attraversano il fiume, ci dà una vista incredibile. Gli strapiombi ricoperti di case danno alle rive del Douro un’aspetto irreale. Il pomeriggio di mare in un posto a 20 minuti di treno si rivela un flop. Dal sole cocente della città ci inoltriamo in una fredda nebbia che avvolge la costa in maniera spettrale.

La francesinha è uno dei piatti tipici. La proviamo ma non ci entusiasma per niente. Passeggiando sul lungodouro animato nel sabato sera, ci fermiamo ad una bancarella in cui si fanno braccialetti in pelle. Ne prendo uno facendoci incidere “InterRail 2013”, in ricordo di questo viaggio che sta volgendo al termine. Raggiungiamo il terrazzo del monastero che sovrasta la collina: la vista notturna è mozzafiato e mi perdo nei pensieri, stupito della strada percorsa finora. Due caipirinhe per iniziare la serata e poi ci uniamo al gruppo di ragazzi del nostro ostello. C’è da alzarsi alle 7 domattina, ma è una delle ultime serate del viaggio, c’è da viverla fino in fondo. Qualche birra e molti locali diversi, per poi trovarsi alle 5, nella cucina dell’ostello, a parlare con due tedeschi sconosciuti di viaggi, disegni e diari, scrivendo queste righe prima di addormentarmi per un paio d’ore.
Andrea Cuminatto
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