Dal Vietnam a Firenze: i Boat People a 40 anni dalla migrazione

Era il 1973 quando la Chiesa si mobilitò – con un accorato appello del papa Paolo VI, che chiese un intervento “pronto ed efficace” – affinché l’armistizio fra Stati Uniti e Vietnam del Nord si trasformasse in vera pace. La Caritas Italiana, voluta dallo stesso Paolo VI quale organismo pastorale della Chiesa italiana per l’animazione delle comunità alla carità, attraverso la promozione della nascita delle Caritas diocesane e il coordinamento delle realtà ecclesiali nell’emergenza, era nata nel ’71.

Mons. Giovanni Nervo, a cui era stato affidato l’incarico di pensare a questo nuovo organismo, rispose all’invito della CEI sul Vietnam, suggerendo alle Caritas diocesane di impegnarsi in questo senso, e diede un duro giudizio sulla guerra nel sud-est asiatico, affermando: dobbiamo esprimere la nostra condanna per la guerra con una generosa campagna di solidarietà con i fratelli cristiani e non cristiani del sud e del nord del Vietnam. Dopo un periodo in cui venivano inviati aiuti dalle Caritas europee, nel ’76 nacque la Repubblica socialista del Vietnam, e subito dopo iniziò la guerra fra Vietnam del Nord e Cambogia. Comunismo e guerra misero in crisi la gente, che nel 1979 iniziò a fuggire: erano i cosiddetti Boat People.

Sono passati esattamente 40 anni da quando i profughi vietnamiti arrivarono in Europa, in Italia, e a Firenze, molti di loro si sono integrati nelle nostre comunità, altri si sono trasferiti, ma tutti ringraziano la Caritas e i tanti volontari che hanno reso loro possibile iniziare una nuova vita.

Una barca dei migranti vietnamiti negli anni '70

Nell’estate del 1979 racconta Don Luigi Bartoletti, attuale parroco di Brozzi – io ero a dare una mano, chiamato dal mons. Del Perugia, al soggiorno estivo degli anziani a Villa Guicciardini. Venne il cardinal Benelli che mi chiamò e mi disse: “Senti, la Chiesa fiorentina si metterà alla finestra, però stando alla finestra tutti la giudicano, quindi bisogna fare le cose per bene. E io ho bisogno di affidarti un incarico importante”. Si trattava di fare l’accoglienza del cosiddetto popolo dei battelli. Allora non c’era ancora stato il flusso degli stranieri, e quindi l’accoglienza di persone che erano nel bisogno era una novità. Mons. Del Perugia era andato in uno dei paesi in cui c’erano i campi di raccolta di queste persone fuggite dal Vietnam e,  individuati diversi nuclei familiari, fu decisa l’accoglienza. Il problema dell’accoglienza era dove, come e quando farla. La scelta del luogo cadde sulla casa dell’Incontro, che allora era un edificio semi abbandonato. Col comune di Bagno a Ripoli lo rimettemmo a posto in un mese, e poi andammo a Roma a prender

Alla casa dell’Incontro – raccontano Don Luigi e Titta Governi, una delle volontarie di allora, e poi responsabile della casa di accoglienza S.Michele a Rovezzano – andarono moltissime persone come volontarie: medici e insegnanti per le cure e l’abc, ma anche semplici volontari per dare una mano. Don Luigi parla di un gruppetto di giovani di Comunione e Liberazione, fra i quali diversi diventati poi sacerdoti, che diedero un grande aiuto in quei mesi, mentre Titta ci parla dell’impegno di suo marito. Mio marito afferma siccome faceva il dentista, venne chiamato alla casa dell’incontro, perché c’era un grande bisogno di medici e dentisti. Iniziò ad andare all’Incontro quasi ogni giorno, alternandosi poi con un suo amico medico. Furono due i gruppi di Vietnamiti che arrivarono qui, e per entrambi ci fu moltissimo lavoro da fare. Con molti di loro che si sono stabilizzati qui, però, abbiamo ancora buoni rapporti e ci sentiamo spesso. Poi a mio marito fu chiesto, quando questa situazione si era stabilizzata, di andare là, a aiutare le persone in difficoltà nella giungla. E lui c’è andato.e il primo gruppo. Fu fatto un appello alle parrocchie della diocesi, e ci fu anche una buona risposta. Erano quasi tutti nuclei familiari ma anche molto numerosi: per esempio una famiglia aveva 11 figli quasi tutti piccoli, e fu accolta dall’allora parroco di Castelfiorentino, don Piovanelli, che sarebbe poi diventato il cardinale. Lo stesso fecero altre parrocchie, come quella di Pontedera dove era parroco mons. Bertelli, futuro vescovo di Volterra. Lo scopo era rimetterli in sesto come persone, quindi: salute, corredo di vestiario e l’abc della lingua italiana. Mi ricordo che ci fu un bel movimento, per esempio il 29 settembre fummo invitati a Lucca (io ci andai con un gruppo di ragazzi vietnamiti) perché al teatro Il Giglio avevano organizzato un bellissimo spettacolo in favore di queste persone.

Anche Don Luigi parla dell’arrivo del secondo gruppo, e racconta: Del Perugia allora era nel consiglio nazionale della Caritas che era nata da poco, e mi chiamarono a Roma per accogliere un altro gruppo, ma in un ambiente della Caritas. Mi ricordo la notte di Natale di quell’anno, nella chiesa di S.Pio X a Roma: grande, gremita: queste persone cantarono un canto natalizio in vietnamita, che io in parte so ancora, perché è davvero bellissimo. Fu un’esperienza così bella che mi vengono i brividi a ripensarci.

Entrambi ricordano inoltre come, dopo due gruppi di vietnamiti giunti in Italia, arrivò un altro problema ancora peggiore: i Cambogiani. Per la guerra infatti iniziarono le migrazioni anche dalla Cambogia, ma le persone arrivavano in Italia in condizioni ancora più disastrose. Fortunatamente vennero trovate delle strutture per accoglierli e si riuscì a portare avanti anche questa missione.

I Vietnamiti pian piano riuscirono ad adattarsi e inserirsi nelle comunità della zona, o a trasferirsi in altri paesi. Don Luigi come Titta ricordano di alcune famiglie che sono andate a stare in Australia o in Canada, e alcuni tornano tuttora in Italia a trovare chi 30 anni fa li ha aiutati. C’è però anche chi ora vive qui a Firenze: Don Luigi ne ha proprio uno come parrocchiano, che adesso ha messo su un commercio abbastanza grande e si è completamente ripreso.

Du Hwe adesso vive all’Osmannoro, ma 40 anni fa era un ragazzo e viveva in prima persona l’esperienza dei “boat people”Lasciai il paese – racconta  perché era in una condizione invivibile, sia politicamente che economicamente. Io e la mia famiglia abbiamo deciso di andar via con un gran coraggio, perché avevamo 2 figli piccoli (uno di16 mesi e l’altro di 3 anni). Siamo partiti anche con alcuni parenti: mia madre e mia sorella, che ora vivono in America con il marito di mia sorella e i loro tre figli, e mio fratello, che invece sta qui in Italia ed è sposato con un figlio. Per partire abbiamo dovuto lasciare ogni cosa: parenti amici e tutto ciò che avevamo. In Vietnam i miei genitori avevano una fonderia che produceva utensili da cucina in alluminio, con 35 operai. Era una ditta importante, la prima nel settore nel sud del Vietnam. Quindi nonostante la guerra vivevamo abbastanza bene, ma la vita laggiù, da quando nel ‘75 è arrivato il regime comunista, è diventata terribile: ci hanno sacrificato tutto, ti sentivi come se vivessi ogni giorno nel buio.

La vita quotidiana è diventata impossibile, avevo 22 anni e ogni giorno mi facevano fare moltissimi lavori, come scavare i canali per irrigare i campi, ma soprattutto tutti i giorni un sacco di assemblee. Non solo assemblee per decidere cosa fare, ma anche per rivelare le cose sugli altri, persino sui familiari. A un certo punto mio padre temeva che io lo denunciassi, e io temevo la stessa cosa di lui. Poi un giorno ci hanno costretti a cambiare tutti i soldi: all’inizio abbiamo dovuto portare tutto il nostro denaro allo Stato, e ci sono stati dati 200 “don” a famiglia (una famiglia di 4 persone poteva viverci appena 10 giorni). In pratica ci hanno fatto fare un cambio in rapporto di 5 a 1, quindi si perdeva l’80%. Da quel momento per qualunque cosa avessimo bisogno, dovevamo fare domanda per avere i soldi. Dopo un anno ce li hanno fatti ricambiare, questa volta a 4 a 1. Un’altra cosa che succedeva spesso era la chiusura del mercato: portavano via tutta la merce e condannavano i venditori. Per questi motivi ce ne siamo andati, non potevamo più vivere così.

Per il viaggio abbiamo dovuto dare via tutto quello che avevamo. Siamo riusciti ad andarcene con un accordo segreto: noi abbiamo origini cinesi e ai Vietnamiti non piacevano i Cinesi perché in quel periodo c’era un cattivo rapporto fra i due paesi. Per loro noi eravamo capitalisti, non stavamo simpatici al governo comunista, e quindi ci hanno lasciati andare via a patto di lasciare tutto a loro. Per partire dovevamo pagare 8 lingotti d’oro (26-27 grammi a lingotto) ciascuno, lasciare tutte le nostre cose al governo, e ognuno di noi poteva portarsi dietro al massimo 3 vestiti. Ci hanno accompagnati al mare internazionale e lasciati andare.

Quello che ho provato durante il viaggio è stata la paura: non sapevamo dove andavamo, se saremmo morti o se ce l’avremmo fatta. Eravamo su una piccola barca da fiume, caricata con 256 persone e non adatta al mare. Tre giorni e tre notti stretti nella stiva, senza cibo o acqua e senza poter respirare. La gente faceva i suoi bisogni lì perché non c’era altro modo. Avevo in braccio mio figlio che si stava riempiendo di bolle. A un certo punto la barca si è rotta e hanno dovuto buttare fuori l’acqua con i secchi. Ero sicuro che saremmo morti lì. Alla fine siamo arrivati in un’isola deserta della Malesia. Ancora lontani dalla riva, dovevamo andare a nuoto, e uno della barca ha preso mio figlio e l’ha lanciato in acqua. L’ho salvato per miracolo, c’era anche il mare mosso. Sull’isola c’erano i rappresentati delle Nazioni Unite, ma ci hanno dato poco. Una scatola di cibo in cui non c’era quasi niente: la Croce Rossa aveva tolto il cibo dalle scatolette, nella scatola di manzo c’era un solo cubetto di carne immerso nell’acqua, e solo due biscotti al posto della confezione intera.

Sull’isola ci siamo stati otto mesi. La spiaggia era bellissima, ma dopo tre mesi è diventata sporca da far paura. L’acqua del mare nera e piena di immondizia, la gente che faceva i bisogni al mare senza più vergogna, di notte e di giorno. Montagne di immondizia, zanzare, mosche, topi e la terra piena di vermi. Per dormire ci eravamo costruiti un letto con dei rami, era uno spazio piccolissimo in cui dormivamo in dodici. Per renderlo più comodo ci mettevamo quello che trovavamo:  le reti delle barche, le scatole di cartone, o altre cose. Poi un giorno hanno iniziato a nascere dei piccoli scarafaggi sotto al letto. Pieno. Di giorno stavano sotto, poi la notte uscivano fuori e ti mordevano. Se li scacciavamo scappavano via, ma la notte dopo tornavano. Non c’era nemmeno acqua per lavarci, quindi abbiamo fatto una buca con una ciotola per prendere l’acqua che c’era sotto terra. E quell’acqua puzzava: ci filtrava l’acqua sudicia dei canali dove la gente lavava le cose e faceva i propri bisogni. Poi per fortuna è arrivata la delegazione italiana e siamo andati via.

Tanti sono stati meno fortunati di noi e sono morti in mare. C’erano anche i pirati tailandesi, che violentavano le donne e uccidevano gli uomini. Una mia compagna di scuola, che ora è in Belgio, ha fatto un’esperienza bruttissima. La sua barca ha incontrato i pirati, le donne sono state violentate, molti sono stati uccisi, poi li hanno lasciati andare. Sono arrivati su un’isola deserta completamente, e non avendo cibo per sopravvivere hanno dovuto mangiare la carne dei propri amici morti.

Questo era un paese del tutto sconosciuto per noi: non conoscevamo l’Italia, l’Europa. Siamo stati 16 giorni a Latina, poi un mese qui, alla casa dell’Incontro. Ricordo ancora la data: siamo arrivati a Roma alle 6 del mattino del 30 settembre ’79. All’Incontro abbiamo conosciuto Don Luigi e altre persone che ci hanno aiutato per i primi tempi. E’ stato difficile per i primi tempi, non conoscendo la lingua, le usanze poi sono così diverse… Ci hanno insegnato un po’ di italiano, ma poco. In altri Paesi europei i nostri connazionali hanno potuto andare a scuola e imparare bene la lingua, qui abbiamo fatto fatica. In Italia non siamo stati aiutati dallo Stato, solo dalla Caritas e dalle persone volontarie. I primi anni qui è stata dura, la popolazione italiana è stata gentile e amichevole, ma è stato comunque difficile. Una famiglia ci aiutati, dandoci per 10 anni un piccolo appartamento. Poi il dottor Governi, Stefano Corso, Maria Laura, sono state tante le persone che ci hanno dato una mano. Pian piano ci siamo inseriti, abituati alla cultura italiana. Ormai ho vissuto più in Italia che in Vietnam. Ogni tanto siamo tornati giù, perché abbiamo ancora parenti e amici, ma ormai l’Italia è diventato il nostro paese.

Esperienze forti, difficili da immaginare, forse più comprensibili per chi ha vissuto quel periodo dando accoglienza alle persone che arrivavano qui ed entrando a contatto con il mondo di sofferenza da cui provenivano. Esperienze di persone che, senza l’aiuto di tanti volontari che non si sono tirati indietro quando c’era davvero da dare una mano, non sarebbero mai arrivati nelle nostre città e non potrebbero raccontare adesso il ricordo di quella parte della vita che li ha segnati per sempre.

Andrea Cuminatto

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